You’re my wonderwall: appunti su Mommy di Xavier Dolan
Ogni spettatore si porta dietro il proprio bagaglio culturale. La visione del film deve poter agire liberamente, come stimolo alla memoria provocando una quantità di associazioni di pensiero. Il cinema è un esercizio ricco di metafore, dice una cosa e ne significa tante altre, ha rapporti con la cultura molto strani e profondi.
Si tratta di un frammento di un’intervista che Alberto Moravia rilasciò per «L’Espresso» nel ‘75. Avevo letto queste parole non recentemente, ma le ho rammentate solo dopo la visione di Mommy. Come la maggior parte dei film di Dolan, anche questo – quasi lapalissiano puntualizzarlo – è dominato dalla tristezza, che, scevra da toni patetici e filtrata dalla genialità del regista, non esula dalla riflessione. Vorrei, a questo proposito, partire proprio dalle parole di Moravia: più che di riflessioni si è trattato di una serie di associazioni di pensiero, parole a voler essere precisi, parole chiave e tre frasi che avevo disordinatamente appuntato sul telefonino. Se Walter Benjamin nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936) sostenne con dovizia di argomentazioni e con toni che oggi risuonano profetici che il pubblico fosse un esaminatore distratto, con questo scritto, consapevole della mia distrazione, tenterò di offrirvi qualche coordinata di lettura.
Per anticipare il cuore del film, desidererei partire da questa frase, la prima delle tre che avevo appuntato per intero:
l’ho mandato lì perché ho speranza, spero nell’istituzione.
È quanto Die, appellandosi alla legge S-14, una diretta parente della “Cura Ludovico” di un Canada tutto distopico, confida all’amica Kyla, mentre suo figlio, Steve, era stato già coattamente ricoverato nell’istituto psichiatrico.
Accanto a questa frase, avevo anche appuntato le parole di Wonderwall, che Dolan, non casualmente, secondo me, sfrutta come sfondo di una straniante quiete ritrovata:
There are many things that I / would like to say to you / but I don’t know how / because maybe / you’re gonna be the one / that saves me / and after all / you’re my wonderwall.
Tutto nella trama è così: ci sono tante cose che Steve vorrebbe dire a sua madre, ma non riesce, non riesce perché gli rimane impossibile arginare l’impeto distruttivo che travolge la sua sensibilità. Die è l’unica che potrebbe salvarlo e Wonderwall, non esito a dirlo, è la parafrasi perfetta di tutto il rapporto tra Steve e Die. Ma non solo, come mostrerò a breve.
Il terzo appunto che avevo trascritto era legato a una frase di Jacques Lacan, con cui la scorsa estate Michela Marzano, durante la presentazione del suo libro, L’amore che mi resta (Einaudi, 2017), magnetizzò la mia attenzione:
amare è dare ciò che non si ha a chi non lo vuole.
Die, sulla scia di questo enigmatico enunciato, non è riuscita a dare ciò che non ha a suo figlio, non è riuscita, detto più semplicemente, a garantire un futuro migliore a suo figlio, nonostante lo desideri. Quelli che Steve e Die si innalzano inconsapevolmente a vicenda, a pensarci bene, sono dei wonderwalls, dei paradossali muri su cui s’infrange la meraviglia della loro sensibilità, sono dei muri che, analogamente a quelli negli amori non corrisposti, nella tristezza sono adorni di parole provenienti dal cuore destinate a tornare indietro, senza che l’altro le riceva.
Per Steve, inoltre, non solo è difficile il rapporto con la madre, egli è anche privo dell’affetto paterno. Suo padre è morto e anche qui si tratta di un muro delle meraviglie: l’affetto, l’amore che mostra a suo padre è destinato a dissolversi in un dialogo col cielo. Questo nel film ha un peso enorme. Le cicatrici dell’Oedipus interruptus emergono dal mancato autocontrollo di Steve, nell’irruenza dei suoi desideri che tiranneggiano il suo stato cosciente, fino ad azzardare, a più riprese, un rapporto carnale con sua madre.
Dolan è stato abile a evocare questa situazione – si sforzi lo spettatore attento –, giocando con quella luce gialla soffusa che pervade a intermittenza lo schermo, quando Steve è nella camera di suo padre. Affermo questo, perché, come il bianco simbolizza la purezza, l’istanza materna, il giallo è il colore dell’istanza paterna.
Per rendere meglio l’idea vi propongo un esempio tutto letterario. Aldo Palazzeschi, che tutti conosciamo a scuola con la poesia della Fontana malata, a detta della critica non usa mai casualmente il colore giallo e la poesia Mar giallo, contenuta nella raccolta Poemi (1909), ne esemplifica al meglio il suo significato in chiave edipica. Lo scenario, tuttavia, è diverso da quello del film. Se lì il giallo non era vietato trapassarlo – perché è di una luce che sto parlando – qui la situazione è diversa, ma questi versi ritengo che possano tornare utili:
E non per questo non si vedono
Sbarrati cent’occhi,
avidi di guardare, e
con tutta la forza dell’anima,
di desiderare un sorso d’acqua
di quel mare
Nessuno azzarda però di toccare
quell’acqua, la legge lo proibisce,
Desiderio e proibizione. Tutto, non a caso, legato al colore giallo, all’Edipo che legifera, metaforicamente parlando, sul rapporto madre-figli.
Chiuso questo psicoprofilo su Steve, porrei, in ultimo, l’attenzione su Kyla, anche lei, come quest’ultimo e Die, figlia diretta della metafora wonderwall. È balbuziente, la sua non è una comunicazione fluida e il parlare le viene meno specialmente in quei momenti di massima disperazione e come non mai «there are many things that I would like to say to you but I don’t know how» divengono le parole più adatte per descriverla. Si pensi alla drammatica scena dell’arresto, nella drammaticità di quel momento è anche impotente di fronte a Die che disperatamente chiede agli operatori psichiatrici la massima cautela per suo figlio.
Sempre Kyla è protagonista di un’ulteriore scena drammatica. Alludo al tentato suicidio di Steve nel supermercato. Steve sta morendo tra le braccia di Kyla che lo soccorre disperata e a causa della balbuzie non riesce ad avvertire nessuno. Un’impotenza straziante, che dura fin quando Die e gli altri presenti nel supermercato piombano sul corpo agonizzante del ragazzo. Le rimane nella maggior parte dei casi sempre impossibile travalicare il muro del suo silenzio, le rimane impossibile afferrare il linguaggio e tuttavia quell’ostacolo invalicabile, analogo a quello di Die e a quello di Steve, è adorno di dolci parole mai dette. Anche il suo, quindi, è un amaro wonderwall.
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Per i riferimenti bibliografici, in ordine di citazione: A. MORAVIA, Al cinema. Centoquarantotto film d’autore, Milano, Bompiani, 1975, pp. VII-VIII; W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, trad. a cura di Enrico Filippini, Einaudi, Torino, 1966, 1991 e 1998, p. 36; A. PALAZZESCHI, Poemi, in ID., Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Adele Dei, Milano, Mondadori, 2002, p. 95; per la lettura psicoanalitica sul giallo in Palazzeschi, alludo al saggio di F. CURI, Edipo, Empedocle e il saltimbanco, in «Il Verri», nuova serie, n. 6, marzo-giugno 1974, pp. 66-86 cit. in S. GIOVANARDI, La critica e Palazzeschi, Bologna, Cappelli, 1975, pp. 92-112.