Giovanna Nappi
pubblicato 2 anni fa in Recensioni

“Le affatturate”: volti di donne dal Novecento italiano

“Le affatturate”: volti di donne dal Novecento italiano

E stringendo fra le braccia questa piccola creatura che a volte si spaurisce per la mia foga appassionata, mi sento un po’ la padrona di questo nuovo mondo, di questa nuova esistenza.

Affatturare qualcuno vuol dire, secondo la Treccani, ‘ammaliare, stregare’; di rimando, le affatturate sono coloro che hanno subìto un sortilegio, una fattura, o che sono rimaste – come si legge nella quarta di copertina di Le affatturate a cura di Rina edizioni – «vittime dell’incantesimo di Eros».

Affatturate, è scontato, è aggettivo che si può attribuire al solo genere femminile, perché a cadere in balia di Eros non potrebbero mai essere gli uomini, integerrimi anche laddove innamorati: a sostenerli, in questo perpetuo moto di fierezza tramandato di famiglia in famiglia, ci sono secoli di disparità di genere che li hanno forgiati a immagine e somiglianza del precedente. Se questa affermazione può sembrare un enorme luogo comune, lo è a maggior ragione la credenza che vuole classificare (e che di fatto classifica) le donne come streghe o vittime della stregoneria, perennemente invischiate a questioni oscure e a moti d’inquietudine.

È dunque provocatorio il titolo che Rina edizioni sceglie per presentare, nella collana «Libertaria», le novelle di ventidue scrittrici del Novecento italiano: la raccolta antologica impugna il topos del più pericoloso tra i sentimentalismi al femminile, quello amoroso, per proporre una storia corale di emancipazione del secolo scorso, un sussidiario di verità troppo spesso taciute, molte delle quali scomode e brutali.

L’operazione letteraria di questo volume è portentosa, quindi, sotto due punti di vista: il primo, come si è detto, è il collante che tiene insieme protagoniste di età, estrazione sociale, aspirazioni, carattere diversi; il secondo è l’importante lavoro di recupero che ha permesso di far confluire all’interno dello stesso testo autrici delle quali restano poche tracce nei cataloghi dell’editoria contemporanea.

Il corpus proposto restituisce l’intero ventaglio umano femminile attraverso storie di donne che muovono i primi passi nel mondo o che sono già adulte; racconti di speranze verso amori non ancora sbocciati o di delusioni per sogni infranti; testimonianze di colpe ed espiazioni; narrazioni di rapporti filiali ostacolati e ormai irrecuperabili. È un universo talmente sfaccettato e ricco, quello proposto, che si può dare al lettore solo un assaggio di questo caleidoscopico libro.

A partire dalla scelta delle sue firme: in ordine sparso, figurano – tra le più note – Grazia Deledda, Annie Vivanti, Amalia Guglielminetti, Paola Drigo, Flavia Steno, Messina; ma anche nomi meno noti, come Adelaide Bernardini, Mura, Clelia Pellicano, Carola Prosperi, Cesarina Lupati, Anna De Donato e molte altre. Ognuna delle scrittrici fa proprio il concetto di brevità, senza però lasciare al caso alcun dettaglio: ogni racconto è messo bene a fuoco, e non si esagera nell’affermare che non c’è, in Le affatturate, uno scritto che, come si suole dire in gergo, non funziona.

Basti pensare al capolavoro che è Stefania Zen, dattilografa di Teresah, pseudonimo di Corinna Teresa Ubertis, autrice classe 1877 di numerosi scritti in versi, nonché di testi teatrali e per l’infanzia. La giovane protagonista, una dattilografa, appunto, «aveva ormai venticinque anni e s’era messa ad amare, così, di botto, forse perché era stanca di non udire nella sua stanza altro che il ticchettio dei tasti della macchina da scrivere, aspro, tenace, allucinante in certe sere di stanchezza come un ti-tac di stampelle che le parlasse di una sua segreta inguaribile infermità».

Nelle poche ore della narrazione si racchiude una delle più amare verità a lungo celate sui rapporti tra donne e uomini: invaghita ma non troppo, Stefania Zen si lascia trascinare «per un sentiero fra i campi» da Lodovico, uomo serio che, a detta dei più, ispira fiducia. I ravvicinamenti, tra i due, si fanno via via più intensi e tanto Stefania Zen si sottrae, tanto Lodovico si fa «imbaldanzito», secondo un perfido schema tra vittima e carnefice spesso spacciato per semplice schermaglia d’amore. L’intuizione di Teresah, qui, non sta nel riproporre il consumarsi di una qualche violenza, che di fatto non sarà inflitta, quanto piuttosto nel mettere a nudo quel malessere, quel profondo disagio che si tramuta in disperazione – talvolta in pazzia – quando una ragazza si concede e viene vista, e quindi giudicata: «non poteva sopportare l’idea d’essere stata veduta mentre un uomo la gualciva tutta a quel modo. E pensò vagamente che baciarsi all’aperto, dove tutti passano, è un atto d’inverecondia e non è quindi amore».

Ciò che viene fatto per assecondare il volere dell’uomo si trasforma in arma contro sé stesse. È quanto accade a Elena, giovane sposa protagonista di L’oscura passione di Carola Prosperi. Ridotta in uno stato pietoso dal marito e prelevata dalla madre Costanza cui si deve anche, con non pochi sacrifici, l’ottenimento della separazione, la ragazza non sembra più la stessa e a nulla valgono i tentativi materni di restituirle la gioia ormai persa. A una vicenda apparentemente senza infamia e senza lode però, secondo uno schema che quasi tutte le autrici dell’antologia rivelano di saper sfruttare, il ritratto della povera diseredata lascia il passo a una figlia spietata, quasi allucinata, con un cambio di scenario interessante e ben riuscito.

Ma, a ragione dell’ampio spettro di storie cui si accennava all’inizio, non si può pensare di dare testimonianza dei tempi e, soprattutto, delle persone, ricalcando schemi già conosciuti. Per questo, tra i contributi meglio sviluppati compaiono quelli che sfatano il mito della madre devota o della moglie consacrata alla carriera del marito. Il primo caso è firmato da Ada Negri, che in La cicatrice è capace di ribaltare le convinzioni più radicate quando si parla di amore materno («Come fanno i figli a nascere e crescere talmente diversi dai genitori, che sembrano di un’altra razza?»); il secondo è La fine di un amore di Clelia Pellicano, in cui le velleità artistiche del marito devono piegarsi all’estro narrativo della protagonista, colpevole del solo fatto di essere a suo modo migliore.

La rassegna di episodi, tra l’umoristico e il tragico, tra il provocatorio e il desolante, è ampissima, come si è già detto. Il grande pregio sta nella vividezza del racconto, che svela molto più di quanto dice e inserisce il singolo tassello in un quadro che va man mano formandosi. Il libro è una sorta di resa dichiarata: non è possibile dire della donna che è questa o quest’altra, che ha tali pregi e tali difetti, perché impossibile è catalogare in stereotipi qualunque essere umano. L’unica cosa possibile è passare in rassegna tutto ciò che esiste e, proprio perché esiste, merita di avere il suo spazio nella pagina.

Come se non avesse già ammaliato abbastanza il lettore con le precedenti pagine, Le affatturate chiude l’antologia con una straordinaria Paola Drigo, le cui parole lucide e affilate risuonano ancora oggi:

Dramma? Sì, dramma. Non tutti quelli a cui si dà questo nome sono costituiti da fatti violenti, e tragicamente luttuosi. Bensì da cose normali, quotidiane, semplicissime; talvolta piccolissime; che avvengono naturalmente, placidamente: così. perché così è; perché così dev’essere; perché la vita, perché l’umana natura hanno queste leggi.

Come si leva e come tramonta il sole: così.