Zazie nel metrò: una sfida alla letteratura
la distruzione della convezione letteraria nel racconto di Raymond Queneau
Da quando la letteratura esiste si può dire che combatterla è la funzione dello scrittore. Ma in Queneau la battaglia diventa un corpo a corpo.
Così Roland Barthes descrive il Queneau più irriverente, provocatorio, l’autore del piccolo capolavoro, Zazie nel metrò (1959). E, in effetti, la prima sensazione che si prova dopo aver letto l’ultima pagina di questo è di perplessità, confusione. Un esperimento, sicuramente ben riuscito, della lotta alla convenzione letteraria. Non saprei come altro definirlo. Ma quella di Queneau non è una provocazione circoscritta ad un periodo o ad un ambito preciso: la sua ironia pungente attacca sì la società parigina in tutta la sua ipocrisia, ma è anche la letteratura stessa ad essere sotto processo.
Non a caso il libro inizia con un’emblematica frase di Aristotele: ” È proprio dell’artista scomparire”. Non è lo scrittore a scomparire – Queneau e tutta la sua stranezza si percepiscono eccome – ma è la letteratura stessa a cambiare volto, a nascondersi dietro ogni parigino, a saltare dalla pura comicità alla satira, passando per l’estremo surrealismo che caratterizza ogni opera di Raymond Queneau.
La trama è semplicissima: arrivata a Parigi con la madre Jeanne, la piccola Zazie passa due giorni a casa dello zio Gabriel e di sua moglie Marceline. Il suo sogno di prendere la metropolitana viene stroncato da uno sciopero. Si ritrova perciò catapultata nelle strade di Parigi, dove incontrerà la vera anima della “Ville Lumière”: personaggi ambigui come il saccente Charles, il falso poliziotto Pedro, il pappagallo Laverdure. Lo stesso zio Gabriel è continuamente in bilico tra la normalità di un adulto e l’ambiguità, anche sessuale: sebbene sia sposato con Marceline, lavora come ballerino travestito e Zazie, per tutto il racconto, pretende si sapere se è o no un “ormosessuale”. Dopo varie peripezie, la piccola protagonista si ricongiunge alla madre e, alla domanda “Cosa hai fatto?”, risponde “Sono invecchiata”, riassumendo così tutto il significato del racconto.
Il primo elemento a saltare all’occhio è sicuramente il linguaggio, spesso sfuggente, che mantiene sempre un importante rapporto con la colloquialità. Un linguaggio che sembra quasi “infantile”, solo in un primo momento di facile comprensione. Ma già da subito Queneau si diverte a mettere in difficoltà il lettore. Non è raro trovare veri e propri neologismi tesi a rendere questo parlato diretto, a volte anche sgrammaticato. Basti pensare alla parola con cui inizia il racconto, “Doukipudonktan” (nell’edizione italiana “Macchifastapuzza”). La componente comica è evidente, ma non c’è solo quella: la resa fonetica, come afferma Roland Barthes, ha un carattere aggressivo, “è invasione del recinto sacro per eccellenza, il rituale ortografico”. Ed è proprio questa provocazione “linguistica” la prima traccia della enorme, seppur breve, impresa di Queneau: la derisione. Una derisione in cui cadono tutti: parigini e non, scrittori e lettori, letteratura e linguaggio.
Ma ridurre il fine di questo libro a semplice satira sarebbe un sacrilegio. Zazie è molto di più: è ironia, paradosso, avventura e, volendo, anche filosofia. Ma, soprattutto, Zazie (e Queneau in generale) è sperimentalismo allo stato puro. Sperimentalismo che si esprime in primo luogo nella distinzione tra quelli che Roland Barthes chiama linguaggio-oggetto e metalinguaggio: “Il linguaggio oggetto si fonda nell’azione stessa, che agisce sulle cose[…] Zazie vive appunto in questo linguaggio-oggetto e non è dunque ad esso che è rivolta la distruzione. […] Da questo linguaggio-oggetto Zazie emerge, per fissare con la sua clausola assassina il metalinguaggio dei grandi. Questo metalinguaggio è quello con cui si parla, non le cose, ma a proposito delle cose.”Ci troviamo così di fronte ad un linguaggio “imperativo” (di Zazie) volto ad imporre al reale, a pretendere; e ad un linguaggio volto invece alla semplice, elementare rappresentazione del reale (che Barthes paragona perciò all’essenza della letteratura stessa).
È così che il lettore si sente denudato delle proprie capacità di comprensione, per altro di fronte a un testo apparentemente facile. Anche questa derisione del lettore fa parte dell’immensa genialità dell’autore francese.
Altro tratto interessante è il continuo girare intorno alla duplicità del reale e della conseguente ambiguità. La più evidente è senza dubbio quella riguardante lo zio Gabriel, come già detto un ballerino travestito, sempre in bilico tra comportamenti prima da padre di famiglia e subito dopo effemminati. Ma sono tantissimi gli altri esempi: già il titolo costituisce un’antifrasi, in quanto Zazie, il metrò, non lo prenderà mai. Emblematico anche il battibecco tra Charles e Gabriel che non riescono a mettersi d’accordo su quale sia il Pantheon, quale la caserma di Reuilly, quale l’Hôtel des Invalides. Da questa discussione uscirà una velata allusione all’ineffabilità della verità:
“La verità! – esclama Gabriel – Come se tu sapessi cos’è. Come se qualcuno al mondo sapesse cos’è. Tutta questa roba, tutto questo, una bidonata, il Panteon, gli Invalidi,la caserma di Reuilly, il tabaccaio dell’angolo, tutto. Sì, una bidonata.”
Paragonato da alcuni ad un’Odissea del Novecento, considerato da molti una parodia di epica, narrativa e psicologia, da altri un romanzo di formazione (soprattutto per il finale), Zazie nel metrò rimane un’opera grandiosa di sperimentalismo letterario (e non solo) e, per questo, sono convinto superi ogni possibile etichetta.
Francesco Zanna per Culturificio