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pubblicato 1 mese fa in Interviste

“Grave disordine con delitto e fuga”: un’intervista a Ezio Sinigaglia

“Grave disordine con delitto e fuga”: un’intervista a Ezio Sinigaglia

Ezio Sinigaglia, nato a Milano nel 1948, ha avuto una lunga carriera nel mondo editoriale e pubblicitario. Ha debuttato nel 1985 con Il pantarèi, un metaromanzo sui classici del Novecento, riproposto nel 2019 da TerraRossa Edizioni, la stessa casa editrice che ha pubblicato anche altri suoi lavori come L’imitazion del vero, Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche, Fifty-fifty. Sant’Aram nel Regno di Marte e Sillabario all’incontrario, tutti scritti negli anni ’80 e ’90. Inoltre, ha pubblicato Eclissi con Nutrimenti e L’amore al fiume (e altri amori corti) con Wojtek.

Riconosciuto come uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei, Sinigaglia ha trovato il suo pieno riconoscimento nel nuovo millennio. Recentemente, TerraRossa Edizioni ha pubblicato il suo ultimo lavoro, Grave disordine con delitto e fuga.

La prima domanda che vorrei farle è sulla sua produzione. La nuova edizione di Il pantarèi (2019) per Terrarossa edizioni (la prima edizione risaliva al 1985) e l’uscita di altri testi come L’imitazion del vero e Sillabario all’incontrario, ci hanno consegnato la figura di uno scrittore di prim’ordine. Forse gliel’avranno chiesto in tanti, ma che effetto fa rimanere inedito per trent’anni per poi essere riscoperto e apprezzato da numerose e differenti tipologie di lettori?

Come ho detto e scritto in varie occasioni, penso che la sfortuna editoriale del mio romanzo d’esordio, Il pantarèi, sia stata ampiamente compensata dalla fortuna che mi è toccata dai 65 anni in poi, cioè dopo l’incontro con Giuseppe Girimonti Greco, che mi ha aperto porte che nei trent’anni precedenti non avevo più nemmeno tentato di socchiudere. In pratica si può dire che io abbia esordito a 68 anni, con Eclissi, pubblicato da Nutrimenti nel 2016. Di lì a poco è iniziato un lungo percorso con TerraRossa (e da ultimo anche con altri editori, a cominciare da Wojtek), che mi ha assicurato la stima di forse un migliaio di lettori e una notorietà molto limitata ma solida. Dico che la sfortuna giovanile è stata ampiamente compensata dalla fortuna senile perché – come credo sia evidente a tutti – nella giovinezza e nella maturità la vita è già abbastanza piena di persone e di cose, di piaceri e di emozioni, da rendere più che sopportabile un destino, come il mio, di scrittore inedito costretto a scrivere per conto d’altri a scopo di sopravvivenza. La vecchiaia, invece, è aspra e desertica, oscillante fra un presente troppo povero e un passato troppo ricco, condannata a una sedentarietà punteggiata qua e là di pellegrinaggi ospedalieri. Le novità scarseggiano, e sono quasi sempre indesiderate. È chiaro quindi che una bella novità come questa (cominciare a pubblicare romanzi alla soglia dei settant’anni e trasformare poi in un quinquennio tutti – o quasi – gli inediti in editi) è in grado di riempire l’esistenza e di rendere inaspettatamente gradevole la “turpe vecchiaia”, per dirla con Mimnermo. Sapere che ci sono lettori che gioiscono per l’uscita di un mio “nuovo” libro e che lo leggono con emozione è un bell’aiuto. Sembra quasi di avere un futuro.

Grave disordine con delitto e fuga è un romanzo breve, in equilibrio tra il noir e la commedia. Come nasce questo suo ultimo lavoro?

È sempre difficile per me rispondere a questa domanda: come è nato un mio libro. Nel corso della vita credo di avere scritto qualche centinaio di incipit, o per meglio dire di prime pagine. La stragrande maggioranza è finita subito nel cestino, qualche decina ha trovato un suo sviluppo poi interrotto a uno stadio più o meno avanzato, cinque o sei si sono trasformate, a poco a poco o – come in questo caso – rapidamente, in romanzi compiuti. Le cose vanno bene quando mi rendo conto di avere trovato la voce giusta. Allora comincio a lavorare con passione. La nascita di Grave disordine, dunque, sta tutta lì, in quella prima riga: “Da qualche tempo nella vita dell’ingegnere De Rossi c’era un lieve disordine”. Credo di averlo giudicato fin da subito un ottimo incipit, che prometteva uno sviluppo interessante e che ha infatti nutrito le pagine successive, scritte su un registro ironico-umoristico nel quale si insinuavano però anticipazioni inquietanti come questa: “Jimmy poteva in qualche modo essere considerato la prova vivente che può esservi alcunché di necessario e di misteriosamente bello e amorevole nelle bramosie di un cannibale”. O questa: “la voglia di gustarne il sapore [della bocca di Jimmy] poteva rendere un uomo indifferente e perfino assetato della propria rovina”. Insomma, c’erano tutte le condizioni per scrivere un racconto di suspense, impiantato su una commedia che evolvesse verso un dramma tinto di giallo (o di nero, a seconda delle preferenze). E l’ho scritto con intensità e passione, in soli tre mesi.

La dimensione della legge e della prestazione sembrano essere un elemento centrale, uniti a quello del desiderio. L’ingegner De Rossi è un uomo abituato ad aver tutto, a gestire eventi e persone. Inoltre, il potere sembra essere collegato alla dinamica del predatorio, la crepa stessa nell’ordine della vita dell’ingegner De Rossi è causata dal volere possedere Jimmy. I temi della sessualità e del possesso ritornano spesso nei suoi libri, penso anche a L’imitazion del vero e L’amore al fiume, con strutture narrative e uno stile diverso. Mi parla di questa scelta?

Il motore primo è sempre il desiderio, ma certo ogni personaggio lo nasconde sotto il suo vestito, e poi lo snuda a modo suo. Nell’Imitazion del vero e in Grave disordine le situazioni di partenza sono consimili: il desiderante ha il potere del padrone (del denaro, se vogliamo semplificare, ma significherebbe ridurre a ben poco la forza e la vastità di questo potere), il desiderato quello della bellezza. Le interpretazioni di questi due ruoli sono tanto diverse quanto sono diverse le due coppie di personaggi (Mastro Landone e l’ingegnere De Rossi da una parte, Nerino e Jimmy dall’altra) e danno vita a due storie diversissime: rispettivamente una specie di fiaba a lieto fine e un racconto inizialmente leggero dal finale crudele. Nei racconti dell’Amore al fiume (e in particolar modo nel racconto che dà il titolo alla raccolta) la situazione è invece paritaria: il potere non ce l’ha nessuno e il solo dislivello che può stabilirsi è quello fra seduttore e sedotto. Eppure in tutti questi casi c’è un momento in cui le posizioni relative di forza sembrano capovolgersi, mettendo in scena qualcosa di inatteso. In fondo, a ben guardare o piuttosto a ben leggere, ogni scrittore ha in mano sempre le stesse carte, non molte perlopiù: tre come a scopa o tredici come a bridge. La varietà sta nei modi diversi di giocarle ogni volta. E nel tempo della giocata, che ha un’importanza decisiva a scopa come a bridge.

A prima vista, la sua prosa a fiume, peristaltica ma così precisa, è qualcosa che mi ha colpito molto. La resa della metafora è il risultato della capacità di filtrare la mente letteraria attraverso l’occhio, in maniera solida e distillata. Una prosa novecentesca che non tratta la letteratura in maniera aristocratica o barocca, gaddiana; anzi stupisce per fluidità. Qual è quindi il suo approccio al testo?

La tradizionale contrapposizione fra narratori puri e stilisti, fra scrittori che privilegiano la storia e scrittori che privilegiano la lingua, l’ho sempre trovata un po’ irritante. Comunque non si adatta al mio caso. La mia sperimentazione sullo stile e sulla lingua è stata incessante e ha coperto l’intero arco della mia vita di scrittore, ma non ha mai prevaricato sulle esigenze della narrazione. Spesso anzi l’invenzione linguistica nasce proprio, in modo spontaneo, dalle situazioni ambientali della storia narrata. Farò soltanto due esempi: il parlato in Eclissi (dove si intrecciano ben cinque lingue: l’italiano, l’italiano maccheronico di Mrs Wilson, l’inglese parlato da Akron, l’inglese parlato dagli isolani, il triestino della memoria) e, in Grave disordine, il modello di “scheda valutativa” redatto dal ragioniere Beltrami, consistente più in segni e simboli che in parole, una sorta di burocratese da verbale che ha finalità comiche e stranianti. Mi sembrano due esempi significativi: sono invenzioni stilistiche che saltano fuori dalla storia quasi per una sua necessità e contribuiscono a costruirla, a portarla avanti o a segnarvi una svolta. Insomma, lasciando da parte il caso del Pantarèi dove la sperimentazione linguistica è a tratti sfrenata perché il vero protagonista del romanzo è proprio il romanzo “sperimentale” del Novecento, in me convivono sempre, e sempre tentano di conciliarsi, le due esigenze, narrativa e stilistica. Lo scopo del mio “lavorare” la lingua come una pasta è proprio quello di raggiungere quella “fluidità” che lei mostra di apprezzare e che può rendere digeribile al lettore anche una storia dura e spigolosa come questa. In generale potrei dire che le sperimentazioni più lunghe e ardimentose sono quelle che portano alla conquista di una prosa liscia come l’olio, di una lingua che, in apparenza, non ha nulla di sperimentale.

Un’ultima domanda. Abbiamo parlato di desiderio ma non dell’altra cifra che caratterizza la sua scrittura: lo humor. Qual è, quindi, la sua idea di letteratura e come interagiscono questi due elementi?

Be’, direi che, se il desiderio è sempre il motore della macchina-racconto, l’umorismo e la comicità sono le ruote del veicolo e l’ironia quei simpatici cerchi di gomma che le circondano e che rendono più sopportabili gli scossoni del viaggio. I miei romanzi sono molto diversi l’uno dall’altro, ma questi tre elementi sono di vitale importanza in tutti. Non riesco a concepire un viaggio narrativo che ne faccia a meno. Se, dentro di me, succede che questi elementi vengano contemporaneamente a mancare, sto fermo. Cioè non scrivo. Il romanzo è una macchina in movimento, dal principio alla fine, come la vita e, soprattutto, come la musica. Per questo, credo, ne sono sempre stato tanto attratto.

Per salutarci, qualche anticipazione su una prossima storia?

Ho qualche progetto editoriale. Nel prossimo autunno dovrebbe uscire, nella collana “Tetra” di Alter Ego, un racconto né lungo né corto intitolato Numeri immaginari e, a metà novembre, è già in calendario una raccolta di tre racconti brevi e un po’ folli, AcroBatiCa, per il nuovo marchio Déclic edizioni. L’anno prossimo pubblicherò i miei sonetti, con il titolo Castello addio, nella collana “I Gradienti” di Zest edizioni sostenibili. Spero che nel 2025 veda la luce anche l’altra mia raccolta poetica, costituita da tre poemetti intitolati Contrattempi. Si tratta dunque di altri inediti, già scritti da tempo. Progetti di cose nuove, o di ripresa e completamento di cose lasciate a metà, ne avrei, ma devo aspettare che la mia musa infingarda torni a visitarmi. E il tempo ormai stringe.

a cura di Massimo Salvati