Dostoesvkij e il male: il diavolo è dentro di noi
«Tutto è permesso». Bisogna partire da questa memorabile formula per comprendere cosa sia il male per Dostoevskij: sono le famose parole di Ivan Karamazov, secondogenito del turpe Fëdor Pavlovic – parole che racchiudono perfettamente l’intera parabola de I Fratelli Karamazov.
Diversissimo dal fratello maggiore Dmitrij, tutto istinti e passione, Ivan si oppone recisamente al terzogenito, Aleksej (più spesso chiamato Alëša): intellettuale ateo il primo, giovane novizio in un monastero il secondo. Quando Ivan dice polemicamente al fratello che tutto è permesso, vuole affermare la libertà incondizionata – e quindi sfrenata – dell’uomo: spogliatosi delle catene della religione e della morale, l’essere umano sarà finalmente libero di compiere qualsiasi cosa, di valicare ogni limite, diventerà un super-uomo, o meglio, un ultra-uomo, un «uomo-Dio»; non dovrà più porsi alcuna questione etica: se il male e il bene non esistono e non sono altro che menzogne atte a imprigionare la volontà umana, e se neanche Dio esiste e non vi è né Inferno né Paradiso ma solo la vita terrena, finita, limitata, allora per l’uomo tutto è permesso, egli può qualunque cosa. L’indimenticabile dialogo tra Ivan e Alëša rappresenta il punto d’arrivo della teoria filosofica di Dostoevskij: senza fede l’uomo è destinato a perdere e a perdersi, trascinato in una demoniaca spirale mortifera, in un gorgo di distruzione e auto-distruzione. Ma vediamo più dettagliatamente la concezione del male secondo Dostoevskij.
Come afferma il filosofo Luigi Pareyson (in Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993), per Dostoevskij il male è quasi un’ossessione, non è qualcosa di lontano e indefinibile, di astratto, ma è anzi tremendamente umano e reale. “Contro il facile ottimismo idealistico e positivistico dell’Ottocento, per cui il male non è che un elemento dialettico destinato al superamento o un episodio passeggero del trionfale progresso dell’umanità, egli ricorda che la realtà del male e del dolore, del peccato e della sofferenza, della colpa e della pena, del delitto e del castigo, è purtroppo una realtà effettiva e ineludibile, che conferisce alla condizione dell’uomo un carattere eminentemente tragico. […] Contro l’ottimismo dell’uomo naturalmente buono, pieno di inclinazioni generose e benevole, […] Dostoevskij indaga l’«uomo del sottosuolo», cattivo, crudele, perverso, irragionevole.”
Per lo scrittore russo dunque il male è dentro di noi, pronto a dispiegarsi in tutta la propria forza attrattiva e costrittiva, e a trascinare l’uomo verso un abisso tremendo e insondabile, da cui riemergere è spesso impossibile. E il male non è alcunché di soprannaturale: non è una forza maligna e astratta, esterna all’uomo, che lo trae in tentazione e lo allontana dal bene, ma è anzi interno all’uomo, come dice lo stesso Ivan Karamazov: «Io credo che se il diavolo non esiste, e quindi è stato creato dall’uomo, questi lo ha creato a sua immagine e somiglianza». L’uomo è il diavolo e il diavolo è l’uomo, il che vale a dire che il demoniaco è presente in ciascuno di noi, eternamente pronto a scatenarsi, se solo gli sarà permesso, e a trasformare l’uomo in un mostro. Il male non ha dunque la statura assoluta del bene: per Dostoevskij Dio esiste, mentre il diavolo no; di conseguenza, chi non crede nell’esistenza di Dio e professa l’ateismo, dimentico di ogni valore o confine morale posto dal divino all’umano, è inevitabilmente destinato a cedere al male, ad affondare in un «sottosuolo» pieno di abiezione e turpitudine.
Quando in Delitto e Castigo il giovane studente Raskol’nikov uccide la vecchia usuraia, Alyona Ivanovna, lo fa per elevarsi al di sopra degli altri esseri umani, per diventare “Napoleone”: l’uomo che si porrà al di là del bene e del male diventerà un uomo-Dio, capace di comandare gli altri e di essere da essi venerato. E l’usuraia è un personaggio inconfutabilmente malvagio, avido e spietato: il giovane se lo ripete di continuo, quasi per giustificarne l’assassinio; ella merita di morire. Ma nel medesimo momento in cui Rodion Romanovič perpetra l’omicidio, casualmente rientra a casa la sorella più giovane della vecchia, Lizaveta Ivanovna; egli deve uccidere anche lei. Lizaveta, che è innocente, viene ammazzata. Ecco un altro tema caro a Dostoevskij: la malvagità che corrompe l’innocenza, la violenza che distrugge spietatamente la purezza; il sacrilegio; il personaggio buono schiacciato dal mondo e dagli altri; l’infezione del male che non risparmia niente e nessuno, ma ovunque miete vittime. L’uomo non ha il cuore di sostenere la grazia e quindi la distrugge: questo vuole dire il Grande Inquisitore a Gesù Cristo, nell’immaginario poema di Ivan Karamazov. Il sangue chiama altro sangue, e così anche il dolore: a tutto questo Raskol’nikov non riesce a resistere, finendo per sprofondare in uno stato di semi-follia e malattia. Il pentimento e la conseguente punizione potranno infine salvarlo dall’auto-distruzione. Ma egli non ci riuscirà da solo: sarà l’amore della giovane e sfortunata Sonja a ricondurlo finalmente fuori dalle tenebre.
Chi invece non riesce a salvarsi è Nikolaj Vsevolodovič Stavrogin, personaggio attorno al quale è imperniata la vicenda de I Demonî, avvincente romanzo pubblicato nel 1873. Stravrogin è un giovane nobile di provincia, abituato fin da bambino a vivere nell’agio e nella ricchezza, che dopo i primi fervori giovanili si è dato interamente a un’esistenza noiosa e spenta, votata alla dissolutezza e al vizio, condizione che presto sfocerà nella più assoluta indifferenza verso gli altri, il mondo e finanche se stesso. Indifferenza che soprattutto finirà per coincidere col sadismo più cieco e assoluto, e Nicolaj ad un certo punto afferma: «Formulai per la prima volta in vita mia questo severo pensiero dentro di me: che non conosco e non sento né il male né il bene, e che non solo ne ho perduto il senso, ma so che il male e il bene in realtà non esistono nemmeno (e ciò mi faceva piacere), e non sono altro che pregiudizi; stava in me l’esser libero da qualsiasi pregiudizio, ma, raggiunta quella libertà, mi sarei perduto». L’uomo completamente libero, dunque, ormai privo di categorie morali, è inevitabilmente portato alla distruzione – come dicevamo prima. Stavrogin infatti sembra quasi emanare un’invisibile aura di depravazione, capace di trascinare anche gli altri verso il male: i «demonî» sono coloro che sono caduti in balia del suo diabolico fascino, della sua sete di abiezione. L’influsso di Stavrogin è paragonabile a un miasma, a una qualche sorta di precipitosa e vorticosa corruzione generale. Entrare in contatto con Stavrogin è dannoso, e chi è stato da lui infettato, contagia poi anche gli altri; per questo la vicenda del romanzo – molto più politica rispetto ad altre trame di Dostoevskij – ruota attorno alla sua figura. Il gruppo di giovani nichilisti, di «demonî» che vuole gettare nel caos la società russa con atti sacrileghi e rivoluzionari, con attentati e omicidi, per distruggerla totalmente e poi rifondarla daccapo secondo i dettami della dottrina socialista, agisce su istigazione di Pëtr Stepanovič Verchovenskij, tra i primi a soccombere al fascino di Stavrogin. Pëtr Stepanovič nutre una vera e propria venerazione, a tratti morbosa, nei confronti di Stavrogin: è grazie a lui che egli è diventato un nichilista menzognero, dissoluto e incredibilmente spregiudicato, ed è in suo onore che vuole distruggere la società e affossare ogni valore esistente, anche a costo di sprofondare in una rete di intrighi, inganni, macchinazioni e omicidi – tutti atti sconvolgenti e violenti, per i quali non proverà mai alcuna vergogna o rimorso. La politica è solo un pretesto per compiere del male. Lo stesso accade, in misura diversa, anche per il nazionalista Šatov o per il nichilista aspirante suicida Kirillov: sono tutti incitati da Stavrogin. L’influsso demoniaco di Stavrogin agisce dunque sugli altri, in senso distruttivo, ma pure sulla sua stessa persona, portandolo all’auto-distruzione. Nikolaj compie atti gratuiti e più o meno terribili (ma sempre lesivi della morale) per il solo gusto di fare del male, e che però a lungo andare lo consumeranno: bacia in pubblico una donna sposata, morde l’orecchio al governatore della provincia, ruba il portafogli a un povero impiegato suo vicino di casa, sposa una donna zoppa per suscitare scandalo in famiglia; arriva persino a far picchiare e poi a stuprare una povera bambina, che dopo continuerà a torturare con i suoi sguardi lascivi e il suo crudele silenzio, fino a condurla ad un disperato suicidio – e qui vediamo ancora una volta l’innocenza travolta dal male. La violenza nei confronti dei bambini ritorna anche nel corso della discussione tra Ivan e Alëša. Per dimostrare ad Alëša l’inesistenza di Dio, o quantomeno l’impossibilità per l’uomo di comprendere e abbracciare Dio, Ivan gli racconta alcuni fatti di cronaca o episodi di guerra particolarmente brutali riguardanti dei bambini, esordendo così : «I bimbi non hanno mangiato nulla e non sono ancora colpevoli di nulla. Ami i bambini Alëša? Lo so che li ami, e capirai perché voglio parlare solo di loro. Se sulla Terra soffrono anch’essi terribilmente è certo per i loro padri, sono puniti per i loro padri che hanno mangiato il frutto proibito: ma questo è un ragionamento dell’altro mondo, incomprensibile per il cuore dell’uomo quaggiù sulla Terra. Non si può far soffrire un innocente a causa di un altro».
È interessante notare, a questo punto, che sia Nikolaj Stavrogin sia Ivan Karamazov soffrono di allucinazioni: entrambi immaginano di vedere il diavolo, malata invenzione delle loro coscienze tormentate. Mentre Ivan cadrà preda della pazzia, Stavrogin deciderà invece di suicidarsi, arrestando in questo modo la catena di morte e dolore innescata dalla sua comparsa nella cittadina. Poco prima di impiccarsi, scrive in una lettera: «Tutto si può discutere senza fine, ma da me non è uscito altro che negazione, senza nessuna generosità e nessuna forza. Ma neppure la negazione è uscita. Tutto è sempre stato meschino e fiacco. […] So che dovrei uccidermi, spazzarmi via dalla terra come un insetto ignobile; ma ho paura del suicidio, perché ho paura di mostrare della generosità. So che sarebbe un altro inganno, l’ultimo inganno in un’infinita serie di inganni»
Nikolaj Stavrogin è forse uno dei personaggi più riusciti di Dostoevskij, sicuramente uno dei più tragici e profondi: è lui il vero protagonista de I Demonî, ed è infatti con il suo suicidio che si conclude il romanzo.
Se «tutto è permesso», l’uomo non è però in grado di sostenere questa mostruosa e sanguinaria libertà, questa smisurata sete di potere: l’assenza di qualsiasi limite lo porta a generare sempre più dolore, in una terrificante spirale di sofferenza che non risparmia niente e nessuno, ma anzi spietatamente travolge tutto e tutti, in primo luogo l’anima di chi cede al male. Se il diavolo è dentro di noi, se il diavolo siamo noi, Dostoevskij ci consiglia di tenere sempre nascosta questa spaventosa presenza, di impedire con ogni mezzo che essa possa emergere e prendere vita: quando il male si scatena, fermarlo può spesso essere impossibile. Una volta sprofondati nelle tenebre, rischieremmo di non poter più tornare alla luce, finendo anzi per smarrirci irrevocabilmente nei meandri torbidi e fangosi delle nostre anime, nel «sottosuolo» che giace dentro le nostre coscienze: un labirinto spinoso e infernale, un oscuro regno di morte e dolore.