Quei mollaccioni dei barbari
come cambia la concezione di un termine
La parola barbaro, dal greco βάρβαρος, ha origine dalla primitiva lingua indo-europea e il significato di “colui che pronuncia suoni inarticolati” nonché una forte valenza onomatopeica.
Originariamente inteso e riferito solo alla diversità linguistica che intercorreva tra popolazioni elleniche (parlanti il greco) e non elleniche, l’appellativo assunse ben presto valenza politica e morale tanto da caratterizzarsi come dispregiativo.
Le guerre Persiane in particolare contribuirono decisamente alla presa di coscienza, da parte greca, della propria diversità culturale (ancor più che etnica), rispetto ai “barbari” e quindi alla formazione di un senso di identità di carattere oppositivo, basato sull’ideale dell’essere liberi come uomini e cittadini della polis.
Il passo dal significato originario di “parlante un altro linguaggio” a quello più generico di “straniero\forestiero” fu breve. Alla luce dello scontro, anche a causa del trovarsi in difficoltà e in crisi a causa della guerra, il termine, già negativo, andò quindi ad assumere un senso dispregiativo.
Incapacità di dominare gli impulsi e ragionare logicamente o di frenare le proprie pulsioni erano solo alcune delle caratteristiche che venivano attribuite agli uomini di altre etnie, spesso descritti come somiglianti alle belve. Alcuni popoli, primi i Persiani, venivano chiamati “effeminati”, poiché avevano l’usanza di portare gioielli e cospargersi di profumi. Inclini a abbandonarsi ai lussi e a farsi comandare altre popolazioni orientali erano caratterizzate dal loro animo “molle”.
Questi attributi, ampiamente descritti in opere letterarie e storiche, vengono anche portati sulla scena del teatro greco e rappresentati figurativamente: sono noti alcuni vasi dipinti che rappresentano scene di lotta tre greci e persiani o di vita quotidiana in alcune popolazioni straniere. Decorati e vestiti di ornamenti e abiti esotici, gli stranieri vengono rappresentati con la pelle bianca, colore che nelle ceramiche raffiguranti protagonisti greci era usato per i volti delle donne.
Queste peculiarità e la “predisposizione” all’essere comandati venivano però attribuiti a fattori climatici: indipendenti dalla volontà del singolo, erano favorite da un clima caldo e ostile che induceva tutti all’ozio, all’ignavia. I pochi che conservavano forza e capacità di azione, nonostante gli usi e costumi distanti e a tratti riprovevoli, riuscivano facilmente a imporsi sugli altri come monarchi o tiranni.
Questa rappresentazione era inoltre necessaria per esorcizzare i timori e configurare la civiltà greca essenzialmente come civiltà della polis: l’identità greca si fonda sull’essere cittadino, polites libero di fronte allo stato, laddove il barbaro ne è schiavo in un rapporto di sottomissione, non di partecipazione e integrazione.
È dunque a causa dei conflitti se le città si chiudono verso l’esterno: nei confronti del barbaro ma anche dello xenos, lo straniero di stirpe greca.
Il tramonto della polis a riproporrà le condizioni per l’apertura e l’incontro con realtà differenti: nel periodo ellenistico lo stato di omologazione, determinato dal comune stato di sudditanza rispetto al sovrano, promuoverà l’integrazione tra uomini di origine diversa.
Saranno poi i Romani a riprendere il termine in senso dispregiativo, ispirandosi all’ideologia della Grecia arcaica (mondo al quale si sentivano affini, disprezzando invece il contemporaneo ellenismo) per poi applicarlo ai propri avversari. Ed è così che il termine arriva fino alla modernità, per cui evoca uomini nerboruti dagli elmi cornuti piuttosto che raffinati e persiani “molli”.
Articolo di Giulia Basili