La forza della bellezza
da un frammento di Friedrich Nietzsche
Ci si accapiglia da sempre su che cosa sia da considerarsi bello e cosa no; la bellezza, infatti, sembra connaturata all’esistenza dell’uomo stesso. Dal 1700, poi, abbiamo dato a questo dibattito sterminato il nome di “estetica”, cercando di confinare – forse invano – l’arte, il genio, la percezione, le passioni ecc in un’unica categoria. Ma Estetica è anche il titolo di un frammento postumo di Friedrich Nietzsche, succinto eppure così notevole da riuscire a ribaltare qualunque cosa si pensi riguardo alla bellezza.
Questo frammento databile all’autunno del 1887 è molto successivo rispetto alla pubblicazione di La nascita della tragedia e quindi della formulazione della nota dicotomia tra apollineo e dionisiaco; tuttavia, quasi retroattivamente, il concetto di bellezza esposto da Nietzsche nelle poche righe del frammento erompe come un fiume in piena sul suo passato «wagneriano», e sul lettore.
Il filosofo tedesco sostiene che la bellezza sia una questione di forza. La dimensione energetica non è soltanto preminente, ma è la conditio sine qua non per giudicare se qualcosa possa dirsi bella oppure no. Per affermare, dunque, «questo è bello!» ci vuole forza. Ma non tutti riescono a pronunciare la bellezza. I deboli, infatti, non sono in grado di proferire questo tipo di asserzione, non ne hanno la forza. Il debole è manchevole del coraggio necessario per giudicare correttamente in termini estetici e soprattutto per esprimere tale affermazione. Egli manca di pienezza, di potenza accumulata in sé stesso, doti che invece sono indispensabili per giudicare esteticamente. Di più: di fronte alle cose nelle quali l’individuo forte vede la bellezza e ha l’energia per dichiarare «questo è bello!», il debole rimane atterrito e percepisce solamente bruttezza.
La forza sottesa nel giudizio estetico è senz’altro ripresa da Kant, da quella «facoltà di giudizio», da cui la terza grande critica Kritik der Urteilskraft. In Nietzsche, invece, proprio l’Urteilskraft assume i connotati ben più netti di potenza, di forza ineguagliabile e primordiale.
Ma è solo proseguendo nel ragionamento che il lettore verrà travolto: il gusto non è infatti declinato nella finezza, nel grazioso o nella proverbiale eleganza, dove invece è il debole a cercare erroneamente il bello. La vera bellezza è piuttosto espressa dalla predilezione per il problematico, dal gusto verso la cosa terribile – verso la tragedia – che solo il forte è capace di sostenere. Ecco il ribaltamento di Nietzsche in tutta la sua controversia: ciò che comunemente è bello e fine, in realtà è brutto e sinonimo di impotenza; ciò che sembrerebbe brutto e tremendo diventa bellezza autentica.
Sono gli spiriti eroici che, nella crudeltà tragica, dicono di sì a sé stessi: essi sono abbastanza forti per sentire il dolore come piacere.
Se la bellezza è atroce sconvolgimento, allora, cosa resta ai deboli per rendere più gradita la tragedia al loro palato? I deboli non riusciranno a godere dell’atto tragico per quello che è, ossia nella sua bellezza pura, ma lo interpreteranno secondo i loro stessi giudizi di valore, che sono sempre depotenziamenti del bello. Alcuni, per reggere di fronte all’atto tragico, vi introdurranno una visione morale del mondo e aspetteranno delle rivelazioni divine che vengano in loro soccorso. Questo atteggiamento nei confronti del bello-tragico viene chiamato da Nietzsche «morale-religioso» e serve a coloro che hanno costantemente bisogno di una speranza, di una giustificazione degli eventi terribili, per sopportarli. Oppure ancora, quelli che il filosofo chiama «nichilisti», messi di fronte alla bellezza-crudele, rinnegheranno l’esistenza e si rifugeranno con decadente concupiscenza nelle forme perfette della natura, perché soltanto tra queste saranno in grado di godere. Ma non è neppure là, tra gli idilli naturali e i luoghi ameni, che la vera bellezza si mostra all’artista.
Gli artisti veri, coloro che sono davvero in grado di giudicare e creare bellezza, non ricorrono né a espedienti di carattere morale-religioso, né alla perfezione della natura. Il giudizio estetico dell’artista tragico abbraccia le conseguenze più lontane manifestandosi in relazione al cataclisma che sta per giungere. Egli non ha paura di dire che l’autentica bellezza risiede nella tragedia. Non fugge il terribile, ma vedendolo arrivare sa di poterlo domare con la sua forza, e in ciò riconosce e afferma il bello.