La vittima mitica del sottosuolo | una lettura comparata di Joker e Taxi driver
Quando, alla fine di Joker, i volti confusi e sconosciuti del pubblico (tendenzialmente piuttosto giovane) tornano ad illuminarsi bagnati dalle luci della sala, per due volte (il film l’ho rivisto per saggiare le sensazioni provate dopo la prima visione) ho avuto l’accortezza di vagliarli con la volontà di carpire le loro emozioni dominanti. Nei loro sguardi e nelle parole “a caldo” non ho colto il dubbio, la sospensione del giudizio; oltre agli sporadici applausi, un sorriso di empatica identificazione col racconto emerge in maniera naturale: il determinismo geometrico della narrazione orchestrata da Todd Phillips, di un cinismo al limite del manipolatorio, ha generalmente sortito i suoi effetti. Una certa espulsione catartica e “farmaceutica” (nella piena semantica girardiana inerente al pharmakos, catalizzatore di violenza impura, di risentimento ed eccessiva pressione mimetica rispetto al desiderio dei singoli) ha fatto il suo corso.
Questo breve preambolo serve a sottolineare sin da subito la mia posizione, la quale, quindi, sposa totalmente le parole dello splendido pezzo di Mattia Carbone: il suo articolo, oltre ad essere estremamente lucido nella decostruzione del testo, ha il peso di un’invettiva e porta con sé il dolore di una “chiamata” che risvegli ad un’arte più vera. L’obiettivo di questo articolo, invece, sarà piuttosto quello di suffragare le tesi presentate nel suddetto lavoro mostrando, anche attraverso una lettura comparata delle arcinote fonti d’ispirazione tematiche e iconografiche da cui Phillips ha attinto per il suo Joker, le problematiche implicazioni che il vincitore del Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia porta con sé.
Faccio un’ultima (banalissima) premessa altrettanto necessaria. Il cinema, specie il cinema narrativo, è un’arte particolarmente complessa perché strutturalmente meno “libera” delle altre forme espressive: scrittura e rappresentazione non sono la stessa cosa, il “come” della prassi cinematografica non è accessorio, al contrario, è precisamente l’essenziale. Il cinema è legato in maniera radicale alle percezioni e allo sguardo del pubblico: la narrazione abita lo spazio immaginativo dello spettatore, l’occhio del regista sostituisce quello dello spettatore (non così avviene ovviamente per la scrittura ma nemmeno per la rappresentazione teatrale). Ciò significa che la modalità della messa in scena e le scelte associative in fase di montaggio veicolano un testo più forte e intenso rispetto alle parole scritte della sceneggiatura. Niente a che vedere quindi con facili contrapposizioni di Forma e Contenuto; il testo è unitario e complesso e, in generale, mai neutro. Questo lavoro si pone quindi l’obiettivo di svelare le strutturali debolezze narrative di Joker comparandolo con i suoi principali modelli: Taxi driver (1976, Martin Scorsese) e The king of comedy (1983, Martin Scorsese).
Sono partito dalle reazioni delle persone in sala alla fine della proiezione perché vorrei, per prima cosa, soffermarmi sulle ambiguità(?) del finale. In molti sostengono che il racconto apprezzato fino alla schermata nera post acclamazione del Joker, quando cioè il risentimento sociale e l’indifferenziazione mimetica culminano nella perfetta creazione mitica di una vittima innalzata a simbolo della giustizia e del riscatto degli esclusi, sia solo un’allucinazione prodotta dalla mente di Arthur Fleck rinchiuso in manicomio. Arthur ride di questa “barzelletta” che gli è venuta in mente ma che non vuole raccontare alla psicologa perché «tanto non capirebbe». Il film si conclude poi con Arthur-Joker che lascia impronte rosse nel candore ospedaliero dei corridoi dell’Arkham danzando all’orizzonte dell’inquadratura e scappando poi, come in una gag comica, dalle guardie (un dettaglio, questo, che ricorda moltissimo, ma con tutt’altro significato, la scena dell’espulsione del narcisista iper-mimetico Rupert Pupkin dagli uffici del comico e conduttore televisivo Jerry Langford, suo modello assoluto: The king of comedy sarà però l’oggetto di una seconda lettura comparativa). La fotografia del finale del Joker è di un chiarore paradisiaco, di un bianco ovattato di tonalità completamente opposta alle tenebre metropolitane piene di verdi e gialli che testimoniano sporcizia, malattia e decadenza. La fuga di Arthur dalle guardie, poi, è divertente e non più ridicola o grottesca; i momenti “comici” precedenti nel film custodivano invece un profondo disagio, respingevano lo spettatore ad una certa distanza così da non disumanizzare il personaggio. Perché allora questo finale? Semplice: il processo di divinizzazione (e quindi di disumanizzazione) della vittima è definitivamente compiuto. La dinamica narrativa, su cui poi ragioneremo, ha condotto precisamente all’adorazione idolatrica del nuovo antieroe; dall’iniziale distanza, i vettori sociali della trascendenza deviata hanno non solo canalizzato i desideri della folla dentro la narrazione filmica ma hanno anche condotto il pubblico al massimo dell’empatia e del riconoscimento: vi è quindi perfetta reductio ad unum incarnata emblematicamente da un Joker che trova, per la prima volta, un sorriso che non è maschera di se stesso. Che tutto quanto accaduto prima sia un’allucinazione o meno risulta quindi totalmente inessenziale: il film racconta altro. L’epilogo completa il climax narrativo dell’ascesa del Joker. Se effettivamente Phillips pensava di generare ambiguità e sospensione con il finale, beh, ha fallito miseramente e, anzi, quello sfocato in chiusura che dissolve i confini dell’identità (e quindi delle differenze) ha un che di liberatorio, riconciliante, quasi mistico.
In Taxi driver (1976, Martin Scorsese), da cui Phillips attinge riccamente sia per l’incedere narrativo che per l’apparato iconografico, troviamo un finale sostanzialmente analogo ma di ben altro spessore e valore ermeneutico. Dopo la tragica e orrenda esplosione di violenza, Travis Bickle (un Robert De Niro di inquietante bravura) resta seduto morente in mezzo alla carneficina da lui perpetrata. I movimenti di macchina orchestrati da Scorsese indugiano lungamente sull’orrore della violenza, la musica sottolinea l’esplosione del tragico, il dolly ci porta ad avere una panoramica della folla sconvolta, accalcata in strada fuori dalla porta del palazzo. Con un virtuosistico raccordo di montaggio Scorsese ci invia verso il sorprendente epilogo: in un solo movimento di macchina l’inquadratura arriva ad indugiare su articoli di giornale appesi nella stanza di Travis che sottolineano l’eroismo della sua impresa mentre in voice over scorre una lettera inviata dai genitori di Iris (la prostituta minorenne per cui Travis, nel tentativo di “salvarla” dal suo misero destino, è arrivato a compiere il massacro) in cui questi si profondono in lodi e ringraziamenti per aver riportato la figlia nel nido natio, per aver ridonato senso alle loro vite, riconoscendolo esplicitamente come eroe. L’opera finisce però con una scena ancora più ambigua: sul taxi di Travis sale Betsy, l’altra figura femminile centrale che nel film rappresenta la prima tappa nella discesa infernale del nostro sociopatico protagonista. Quando infatti Betsy respinge il corteggiamento, insieme maldestro e impositivo, di Travis, viene corrotta in maniera esiziale la ferita al cuore dell’identità del giovane, dando così forma ad un risentimento già virulento e contribuendo a delineare le architetture di un sottosuolo costruito nell’insonnia, nel vacuo peregrinare notturno, nella fredda solitudine di una stanza spoglia. Durante quest’ultimo viaggio in taxi assistiamo ad un ribaltamento totale della loro relazione: Betsy si dimostra comprensiva e affettuosa come non lo è mai stata; lei parla e chiede, Travis invece risponde evasivo, evitante; non c’è contatto diretto di sguardi, il tramite è lo specchietto retrovisore; Travis gode ora di un prestigio che significa narcisistica autonomia del desiderio: quella ossessiva dipendenza causata dalla bramosia di vedere testimoniata la propria unicità nello sguardo altrui si è ormai trasformata in splendida indifferenza. L’uso sapiente del fuori fuoco e del fuori-campo conferma una perturbante vaghezza: «so long». Ma qualcosa, nuovamente, incrina le percezioni dello spettatore: l’ultimissima inquadratura del film, raccordata con uno stranissimo movimento di macchina ad anticiparla, mostra Travis che, incapace di rispondere al proprio sguardo nello specchietto retrovisore, sposta bruscamente quest’ultimo verso i neon lisergici di New York, come ad attestare l’insostenibilità del proprio sguardo su di sé. Lo splendido finale di Taxi driver risulta quindi un completamento geniale e beffardo se correlato al crollo nella paranoia sanguinaria che ha portato Travis in punto di morte: quella che vorrebbe essere una riconciliazione mitica in grado di trasformare la violenza impura di un massacro nell’opera giusta di un salvatore (un’illusione che, per un attimo, lo spettatore è quasi portato a credere plausibile) viene bruscamente scossa da uno sguardo che non riesce a chiudersi su se stesso, sottolineato da un rumore che pare simile al grattare di un disco incantato. Insomma, la sensazione di allucinazione “da ultima ora” immaginata da Scorsese e Schrader (autore della grandiosa sceneggiatura) sospende e inceppa la riscrittura mitica della violenza, evitando quindi di trasformare il carnefice in eroica vittima.
Proseguendo in questa lettura comparata dei due testi cinematografici vorrei a questo punto soffermarmi sulla questione della violenza, più specificamente sulla sua rappresentazione. Tanto in Joker quanto in Taxi driver la violenza è onnipervasiva, autentica anima mundi neoplatonica che trasuda da ogni angolo della metropoli. In entrambe le pellicole essa può assumere varie forme ma non si fa fatica a collegare le diverse manifestazioni fenomeniche alla medesima natura mimetica e alla struttura indifferenziante della crisi sacrificale. Tra le parole prive di empatia della psicologa durante le sedute di Arthur e il fermento della folla con la maschera da clown sussiste solo uno scarto di intensità; analogamente tra la tronfia retorica del candidato alle presidenziali Charles Palantine e la volgare dialettica di un magnaccia pare essere in definitiva solo una questione di stile. In sostanza, l’effervescenza, l’insicurezza, le dinamiche di emarginazione e polarizzazione dei conflitti che agitano la Gotham di Joker, sono le stesse che dominano la New York di Taxi driver. Eppure, in maniera inequivocabile, l’azione violenta dei protagonisti delle due pellicole non è in alcun modo comparabile, precisamente alla luce della sua rappresentazione.
Analizziamo i casi più eclatanti. In Taxi driver la violenza divampa terrifica solo una volta (la prima uccisione del rapinatore dentro il negozio di alimentari è rapida, fredda, alle spalle: significativa perché traduce precisamente l’inabilità alla relazione del protagonista con la prospettiva del riscatto sociale proprio e della società nel suo insieme, in quanto civitas terrena incistata in un male altrimenti inemendabile). Travis Bickle, dopo aver pianificato l’azione, uccide il magnaccia di Iris, il suo affittacamere e un malcapitato cliente: quella che doveva essere una esecuzione “pulita” si trasforma in un massacro grandguignolesco; la regia indugia con macabro voyeurismo sui dettagli come se ogni frame dovesse pesare nell’occhio dello spettatore; la fotografia calda rende ancora più irrespirabile l’aria di quella stanza, di quei corridoi, di quelle scale marcescenti. La brutalità del gesto è tale che risulta totalmente impensabile un’identificazione con il personaggio interpretato da De Niro: la stessa dinamica scismatica che ha portato Travis Bickle a minacciare la macchina da presa nella scena più rappresentativa della pellicola (faremo ancora riferimento a questa iconica scena) per chiudervi definitivamente dentro l’immagine problematica di sé, in quanto residuale traccia della sua dipendenza dal riconoscimento altrui -motivo quindi di frustrazione, fragilità e inadeguatezza-, coinvolge anche lo spettatore che si separa allo stesso modo dal personaggio chiuso nello schermo, ormai irredimibile e contaminato della stessa violenza di cui è innervata la società.
In Joker, al contrario, siamo testimoni di una rappresentazione catartica dell’azione violenta: la brutalità del gesto non costringe mai lo spettatore in una sospensione estraniante, l’elemento perturbante e impuro non viene messo in scena nella sua nudità: insomma, manca la riflessione sul negativo. Valutiamo i dettagli per valorizzare le differenze (siamo consapevoli che Girard è maestro nel pensare l’identico e il continuo come criterio di composizione del mosaico culturale): quando Arthur Fleck uccide i volgari yuppies, chi tra noi non ha pensato «oh, finalmente!»? – (Non intendo soffermarmi sulla precisa e maldestra scelta dei vari “agenti del capitalismo” come capro espiatorio in vista della nuova palingenesi comunitaria -rimando ancora una volta all’articolo di Mattia Carbone-) -. Arthur, il quale nella prima parte del film è presentato come un Giobbe che rivela e già implicitamente denuncia il cerchio vittimario che s’agglutina intorno a lui, è pienamente giustificato e assolto nella sua azione violenta e il film di Phillips cerca di sottolineare sin da subito l’aberrante riscatto della vittima (ossia sin da subito inizia a preparare il terreno per rendere seducente l’idolo che emergerà alla fine del processo). Ci avete fatto caso? Quali scene sono associate in montaggio ogni volta che Arthur compie un’azione violenta? Nel caso dell’uccisione degli yuppies Phillips fa prima danzare un Arthur impaurito ed insieme eccitato (effettivamente danza e violenza sono spesso legati nel film: del resto l’opera di Girard, da La violenza e il sacro a Il capro espiatorio, è ricca di momenti in cui violenza e danza sono non solo correlati ma anche uno la metafora dell’altra) che, come in un rituale, finisce per ritrovare un omeostatico equilibrio; poi carrellata profonda in ralenti alle spalle di Phoenix che cammina ritto e slanciato nel corridoio del suo palazzo, per concludere infine con la conquista sicura della vicina di casa: insomma la violenza funziona meglio di quei farmaci sottrattigli dall’edonismo reaganiano. L’azione catartica ridona un centro alla sua identità, solo in un senso più risolutivo, “trionfale”, seducente.
L’omicidio della madre mostra le stesse dinamiche ma la malafede di Phillips è qui più grave: se Joker fosse effettivamente un testo vittimario (Girard, in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, lo definisce anche testo di persecuzione (1)) e non un testo vittimistico, non assisteremmo di certo a così tanta acribia nella volontà di distribuire da una sola prospettiva differenze, responsabilità e colpe: in questo senso, infatti, la madre di Arthur dovrebbe essere vittima quanto lui, ma non è questa la percezione suggerita al pubblico e il tono inquisitorio del montaggio lo sottolinea indubitabilmente. Penny Fleck è affetta da malattia mentale tanto quanto il figlio, ma contro di lei cala la scure dell’accusa mitica delle colpe che ricadono sui figli: in un’escalation grottesca vengono sciorinate davanti agli occhi dello spettatore prima la richiesta di cure con relativi commenti denigratori e castranti riguardo le aspirazioni e i desideri del figlio, poi il Segreto del Padre, infine lo scandalo dell’adozione e dei maltrattamenti del compagno. Per Arthur, recidere il materno legame, significherà quindi, inconsciamente e macchinalmente, purificazione, redenzione e nuova affermazione di sé: tanto è vero che solo dopo la morte della madre, la personalità franta di Arthur lascerà il posto alla sintesi unitaria dell’idolo Joker, con il Nome ad elevare il personaggio a simbolo. Cinema more geometrico.
Un ultimo appunto sulla rappresentazione della violenza per sottolineare ancor di più l’ambiguità e la pochezza della messa in scena di Phillips. L’unica scena in cui la violenza esplode crudele e quasi “gratuita” è quella in cui Randall visita l’appartamento di un Arthur in fase metamorfica, per porgere le condoglianze e per cautelarsi dalle indagini della polizia. In quel momento Arthur si vendica e attacca brutalmente l’ex collega, tagliandogli la gola e infierendo sul suo corpo morente. Lo spettatore viene colpito per un attimo dalla sproporzione della violenza: l’intensità di una scena del genere avrebbe potuto infatti risvegliare la coscienza del pubblico dall’annebbiamento mitico che vuole a tutti i costi velare la realtà della violenza, mostrando Arthur, al contrario, come il criminale che effettivamente è. E invece Phillips pensa bene di inserire come agente di distrazione l’altro ex collega di Arthur, il personaggio affetto da nanismo, unico sul luogo di lavoro a dimostrarsi vicino ai suoi problemi, empatia tra reietti della società. La tensione crolla sin da subito, la scena è reiterata e volutamente ridicola: si intuisce subito che il Joker nascente lascerà andare il malcapitato amico. Certo, non prima di aver ricordato a tutti il motivo per cui ha senso che ciò avvenga: la divisione manichea tra vittime e carnefici è ormai manifesta, la fraternità tra vittime genererà con l’espulsione del vero capro espiatorio (i potenti, i ricchi, l’establishment smaccatamente caratterizzato secondo la prassi sacrificale) un nuovo ordine, meglio, un nuovo dis-ordine di cui l’idolo-Joker sarà ministro del Caos. Gentilmente Arthur apre il chiavistello irraggiungibile al sopravvissuto, mentre un bacio sulla fronte corona la separazione. Cinema programmatico, adolescenziale, ingenuo, colpevolmente deresponsabilizzante (colpevolmente, perché s’ammanta al contrario di un impegno etico e sociale il cui riflesso sullo schermo è tuttavia solo pericolosa e involontaria parodia).
Per concludere il discorso sulla lettura comparata di Taxi driver e Joker, vorrei soffermarmi ora sulla struttura narrativa delle due opere. Abbiamo già precedentemente rilevato che se in Taxi driver la parabola di Travis Bickle inclina vertiginosamente verso la definitiva frattura della soggettività, in Joker si procede con un movimento contrario che traduce la doppiezza della debole identità di Arthur nella ritrovata unità dell’idolo, sublime reductio ad unum. Dal doppio all’unità è anche il sottotitolo, nonché codice ermeneutico strutturale, del testo di Girard su Dostoevskij: ma quell’esorcismo del doppio come scandalo mimetico che prende il nome di rivelazione romanzesca, non ha niente a che vedere con l’ascesa dell’antieroe. Quest’ultima si dipana, al contrario, come tensione verso l’unità che trova nella sacralizzazione della vittima (in nome di una più “giusta” polarizzazione della violenza mimetica) il suo compimento: il male viene quindi sublimato, non preso di petto.
È risaputo che una delle fonti di ispirazione principali per la sceneggiatura di Taxi driver, firmata dalla penna magistrale di Paul Schrader, furono le Memorie dal sottosuolo del succitato Dostoevskij. Le somiglianze tra i due testi sono molte e particolarmente significative. In questa sede cercheremo di tenere in considerazione sostanzialmente due aspetti, senza peraltro poter procedere in un’analisi granché approfondita: il rapporto tra il protagonista e l’altro, e la restituzione sadica della violenza “subita”. Come in ogni grande testo iper-mimetico centrato sulla solitudine e sul montare di un risentimento sempre più incontrollabile, anche Taxi driver traduce a suo modo i due grandi assiomi della metafisica del sottosuolo: il dostoevskiano «io sono solo, e loro sono tutti» e il sartriano «l’enfer c’est les autres». I testi del primo Girard articolano parti decisive del loro plesso teorico intorno a questo tipo di proposizioni perché, con la loro icastica e minimale chiarezza, esse indicano precisamente il riduzionismo menzognero e derealizzante di colui che giunge ai gradi più infernali della mediazione interna. Il grande insegnamento di Girard a livello psicologico è stato esattamente illustrare con efficacia come proprio quelli che sembrano essere i comandamenti di una nuova religione dell’individuo, siano in realtà la cifra di una soggettività non più bastante a se stessa ma che, al contrario, si riconosca come massimamente abitata dall’interindividualità, infestata dai fantasmi dell’alterità. L’assoluta separazione, la differenza posta con rigore manicheo, la demonizzazione dell’alterità in quanto tale pare, a un livello superficiale, il canto liberatorio dell’autonomia romantica, la riaffermazione di un’esistenziale emancipazione. Niente di più falso: quando ci si trova ai gradi più estremi della mediazione interna, laddove la doppia mediazione trafigge ogni attimo della vita interiore, dove masochismo e sadismo innestano una spaventosa dialettica, significa ormai che l’Io ha per nome Legione e gli altri abitano in molti modi la carne del singolo. Solitudine, risentimento, dipendenza dall’altro, imitazione di uno o più modelli e, in generale, un costitutivo indebolimento conducono molto spesso il soggetto a non poter più sostare/vegliare con/su se stesso e a liquefarsi nel mare di un’alterità ormai spettrale e demoniaca.
Il Travis Bickle di Taxi driver, già costretto a vivere il traumatico post Vietnam e il tramonto del sogno americano, si ritrova a dover affrontare l’incapacità di relazionarsi con l’altro sviluppando così una deriva sociopatica e paranoide in cui rovinosamente vengono a coincidere istanze proiettive legate al proprio riconoscimento e una progressiva e proporzionale crescita di odio e disprezzo dell’altro (disprezzo che geometricamente rimbalzerà sul proprio sé). L’abitacolo del suo taxi cinge lo spazio privilegiato dell’osservazione: da lì Travis desidera, idealizza, giudica. Lo sfogo del suo immaginario si consuma in desolanti cinema che danno solo film pornografici. I colleghi, del resto, non aiutano: nelle poche conversazioni a cui Travis partecipa, non può far altro che sentirsi inadatto di fronte agli altri tassisti che millantano soddisfacenti imprese sessuali e che compatiscono il suo scandalizzarsi di fronte al degrado sociale della metropoli. Le prime crepe nell’equilibrio psichico del giovane si intuiscono già da subito: la macchina da presa di Scorsese indugia con grande raffinatezza psicologica sulle sfumature delle espressioni di De Niro, sottolineando i momenti in cui il desiderio di Travis tende oltre i vetri freddi del suo taxi, verso la speranza di un contatto affettivo autentico con l’altro (si veda la soggettiva che cattura il bacio di due sconosciuti sul ciglio della strada e il conseguente raccordo di sguardo) o quelli in cui l’insonne tassista alza il freddo muro del disprezzo illudendosi di essere custode di una differenza da rivendicare, frutto in realtà del più corrivo e scandaloso risentimento (si veda la scena, speculare per costruzione a quella succitata, in cui Travis guarda a lungo i due pappa di colore nel locale dei tassisti).
A questa altezza del racconto la vendetta di Travis è ancora soltanto un nebuloso sentore, ma una prima decisiva svolta in questo senso si palesa nell’incontro con Betsy e nell’umiliante fine della loro brevissima relazione. La modalità con cui Travis entra in contatto con la bella impiegata del comitato elettorale del candidato presidente Charles Palantine, non deve essere valutata semplicemente come strategia seduttiva standard, piuttosto è la traccia di una certa ricorsività nel dispositivo di relazione e, in particolare, nella posizione-imposizione della sua soggettività. Il faccia a faccia non è solamente richiesto, è addirittura preteso sin da subito: evidentemente il Terzo è un elemento di mediazione che destabilizza l’insicuro Travis. Il giovane così come irrompe nell’ufficio, con la stessa aggressività irrompe nella vita di Betsy: «credo che lei sia una persona sola. Io giro sempre e la vedo, qui dentro. Vedo che ha molta gente intorno… e vedo i telefoni e tutta questa roba sulla scrivania… ma non valgono niente. Quando sono entrato e l’ho conosciuta… ho letto nei suoi occhi e nel suo atteggiamento che lei non è una persona felice. Credo che abbia bisogno di qualcosa. Può chiamarlo amico, se vuole. Che ne dice? È un po’ difficile starmene qui così, a chiederglielo, quindi… cinque minuti e basta. Qui fuori. La proteggo io». Travis è richiestivo, impositivo e giudica.
La scena successiva, in cui Travis e Betsy prendono insieme un caffè, riconferma e inasprisce il medesimo canovaccio: ritroviamo in sequenza l’assorbimento dell’altro e del discorso altrui nella galassia del proprio ego, la squalifica giudicante del possibile mediatore (il collega di Betsy), infine la rivendicazione e richiesta di riconoscimento altrui di una propria unicità rispetto al possibile mediatore. Travis non sembra cercare una relazione, pare pretendere piuttosto un’elezione assoluta che agisca biunivocamente: vuole proteggere coloro che vengono eletti come degni e differenti rispetto allo schifo che lo circonda ma desidera, allo stesso modo, essere coinvolto in un potente flusso di riconoscimento e cura in grado di sanare la sua ferita e la sua solitudine. Altrove in questo blog abbiamo già dimostrato come l’amae (desiderio del desiderio dell’altro) unito ad uno spiccato mimetismo possa trasformarsi in una potente fonte di risentimento. L’umiliazione del primo appuntamento incide nella crepa: Travis è già così alienato che nemmeno mette in preventivo la possibilità di causare disagio a Betsy portandola in un cinema porno. Tutti i giudizi proferiti qualche giorno prima, che parevano così ben calibrati e seducenti, nascondevano il rimbombo del sottosuolo, la più assoluta mancanza di empatia e di attenzione alle convenzioni che regolano i rapporti umani (potremmo forse parlare di questa analisi come di un tentativo di lettura mimetica della sociopatia). In un attimo anche Betsy finisce nel coacervo indifferenziato degli “altri”, responsabili del degrado sociale ma soprattutto responsabili della sofferenza che vive Travis: dopo aver espresso la sua frustrazione («sei come tutti loro»), l’autocoscienza del ragazzo riprocessa tutto quanto accaduto («solo ora capisco quanto lei sia come gli altri, fredda e insensibile. Molta gente è così. Le donne di sicuro. Sono tutte uguali»). Lo abbiamo visto parlando brevemente dell’uomo del sottosuolo dostoevskijano: proprio nel momento in cui si genera la frattura non rimarginabile con l’alterità, là dove la generalizzazione astratta del ragionamento tende a giustificare un risentimento generato da frustrazioni singole, ebbene, proprio lì, l’Io e Altri finiscono per compenetrarsi producendo, secondo processi di esclusione e immunizzazione, la risposta violenta dell’Io. L’Altro, insomma, comincia ad infestare il sé scandalizzandolo profondamente, diventando il capro espiatorio di ogni male che colpisce l’Io: solo un esorcismo catartico può allora liberare dalla sofferenza.
È infatti solo a quel punto, quando ormai ogni incontro e ogni sguardo diventa un segno che conferma la verità della frattura, che, cartesianamente, giunge alla mente la “grande idea”. Come fu per Raskolnikov in Delitto e castigo, così anche Travis comincia ad essere dominato dalla volontà di incidere nella storia, solo con un bonapartismo più sconfinato e apocalittico, da redentore della società. Certo nel modo in cui prende forma il contenuto segreto della “grande idea”, la scrittura di Schrader paga sicuramente un pegno importante ad altre fonti: le atmosfere più apocalittiche dell’Agostino del De civitate Dei, nel loro filtro protestante e poi pascaliano, con il mondo terreno assolutamente svuotato di ogni Grazia, abbandonato alle aride logiche dei rapporti intrisi di peccato, non meritevole e lontano dallo sguardo di Dio, condannato. Il tutto tenuto insieme dall’approccio diaristico del Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos, giunto agli occhi di Schrader grazie alla mediazione del film di Robert Bresson, regista profondamente amato dall’autore.
Per emergere, per tradursi, ogni “grande idea” ha bisogno di un simbolo che la rappresenti: una volta fallito l’attentato al candidato presidente Charles Palantine (vero e proprio mediatore-ombra nella relazione abortita sul nascere tra Travis e Betsy), l’incarnazione di questa idea diventerà Iris, fiore minorenne in fuga da casa e finita nel giro della prostituzione. Salvare Iris dalle maglie del degrado metropolitano avrà per Travis il valore della missione, un compito sublime utile a differire la purezza dall’impurità, vendetta privata che dovrebbe ergersi a legislazione comunitaria. Effettivamente, più che uno scontro valoriale tra Bene e Male, la vicenda di Travis mette in scena il costante tentativo di separare Puro e Impuro (rimando all’omonimo testo di Vladimir Jankelevitch), violenza pura (ossia mitica, seguendo le parole di Benjamin in Per la critica della violenza) e violenza impura. Travis non accetta di veder tradite le sue aspettative riguardo ad una certa idea di purezza, tingendo quindi la realtà dei colori della sua ossessione. Ma Scorsese, in una delle poche scene in cui Travis non è presente, ha la premura di mostrarci una sequenza in cui Iris e il suo protettore (Harvey Keitel) si riconciliano ballando teneramente dopo l’ennesimo litigio: come a testimoniare che la bellezza delle emozioni -e dell’erotico in particolare- possono risplendere ancor di più nell’ambigua, meschina e impura rete dei rapporti umani.
L’iconica scena del dialogo di fronte alla macchina da presa testimonia esattamente la necessità per Travis di separarsi dalla sua parte compromessa e impura per riuscire ad adempiere in pienezza la violenza pura, mitica, giusta. «Dici a me? Con chi stai parlando allora? Ce l’hai con me? Ci sono solo io, qui. Con chi cazzo ti credi di parlare?». Minacciando il pubblico che lo guarda, Travis sembra che in un colpo solo voglia eliminare quegli occhi che lo reificano in un’immagine che lui stesso non accetta e in cui non si riconosce, ma insieme questa scena comunica il senso della presenza d’altri nella sua psiche ormai corrotta. L’evento al fondo del sottosuolo dice il passaggio dall’unità alla scissione, nella speranza di ritrovarsi diverso e riconciliato alla fine del processo di espulsione violenta del proprio risentimento. Con i risultati che il lettore già conosce.
L’andamento narrativo di Joker procede invece in un senso contrario. Arthur Fleck non aderisce né a se stesso né al riconoscimento altrui e tutto il film tende a questa riunificazione. La separazione intrinseca è testimoniata precisamente da quella risata schizoide e barocca: il vuoto che quella risata dischiude è cifra puntuale della contraddizione interiore ed insieme della distanza dal riconoscimento altrui. Non argomenterò qui il risvolto eminentemente psicologico che attaglia la figura dell’antieroe interpretato da Joaquin Phoenix (questo argomento sarà più centrale nella seconda lettura comparata che lega la pellicola di Phillips a The king of comedy di Scorsese). Voglio qui solo sottolineare come la struttura narrativa possa essere paragonata al movimento di un pendolo. Un pendolo il cui moto delinea da una parte lo slancio proiettivo verso l’identificazione, dall’altro il moto di ritorno che significa frustrazione e castrazione del desiderio. Dal punto di vista psicologico, questa parabola immanente al film fa sì che esso segua principalmente lo schema freudiano. A noi interessa solo evidenziare come tale meccanismo produca nello spettatore l’effetto dinamico di una molla che tende così a giustificare l’escalation della violenza misurandola con “la severità e l’ingiustizia” del rifiuto sociale che Arthur subisce. Propriamente a partire da questo meccanismo psicologico, implicitamente auto-assolutorio, è possibile innestare la brillante lettura decostruttiva girardiana della violenza, del mito e della posizione della vittima sempre più divinizzata.
Phillips è spaventosamente goffo nell’ostinarsi a presentare Arthur come “vittima ad ogni costo”: prima intende mostrarci Arthur come l’artaudiano «suicidato della società» con il delirante progetto del numero comico che si dovrebbe concludere nel martirio esplicitando così l’accusa all’indifferenza della società. Poi, nonostante si presenti presso gli studi televisivi travestito da clown e con la richiesta di farsi chiamare con il nuovo, più iconico, più riconoscibile e immediato, nome di “Joker”, è solo l’assistente di Murray Franklin (ancora un grande De Niro, in citazione esplicita da The king of comedy) che deve ricordare insistentemente ad Arthur la possibilità che questa sua mise possa ricordare la folla di clown mascherati che da giorni ormai infesta la città (in realtà, anche nella stanza di Arthur è pieno di articoli di giornale che parlano del fenomeno e vi associano, come episodio originario e seminale, l’omicidio degli yuppies). Infine, la conversione del suicidio in omicidio in diretta: Murray Franklin, da padre adottivo sognato e modello comico tanto bramato, si trasforma in un nuovo e supremo carnefice dei desideri del novello Joker, un vero e proprio golem massmediatico da abbattere. E così parte per l’ennesima volta il discorso vittimistico atto a giustificare l’omicidio in diretta nazionale: con quest’ultima seducente trovata si completa questa macabra inversione del ciclo vittimario, in cui la vera vittima rimane invisibile alla rappresentazione e in cui il centro rimane l’ascesa dell’antieroe travestito da agnello sacrificale.
Coloro che sostengono che l’acclamazione del nuovo idolo sia un fatto puramente casuale sbagliano di grosso, tanto è vero che parallela alla scena dell’acclamazione, dove il clown senza maschera si imbratta il sorriso di sangue riconciliandosi per la prima volta con se stesso investito dal riconoscimento della folla indifferenziata, scorre quella dell’omicidio di Thomas Wayne e della madre del giovanissimo Bruce: l’assassino mascherato da clown, per officiare l’esecuzione, usa esattamente le stesse parole pronunciate da Joker nello studio televisivo. A quell’altezza il Joker è già diventato un simbolo: la vittima divinizzata, il giusto che vendica i soprusi di una società falsa e corrotta in nome di una nuova palingenesi comunitaria. Il gelido meccanismo della narrazione (prima del già analizzato finale) ci deve portare infine ad un’ultima riflessione: comporre un montaggio parallelo tra l’acclamazione del Joker, simbolo di un’altra “sovranità” giustificata dalla violenza anonima dell’antico regime, con l’Evento che genealogicamente dona i natali al Cavaliere oscuro, significa santificare contemporaneamente due tipi di violenza e rendere una inseparabile dall’altra: la violenza mitica così seducente e giusta richiamerà necessariamente una violenza altrettanto giusta, quella poliziesca (sempre per usare la terminologia benjaminiana), incarnata, non a caso, da un altro idolo mascherato.
Mi si permetta una nota conclusiva: poiché in diverse scene sono presenti riferimenti al cinema di William Friedkin, in particolare al Braccio violento della legge (poliziesco di inizio anni Settanta con Gene Hackman), mi permetto questo riferimento iconografico, non so quanto cercato da Phillips, ma certo non inessenziale ai fini dell’analisi presentata nel presente lavoro. La scalinata che Arthur percorre più volte nel corso del film, alle volte risalendola con fatica, altre volte in senso contrario, è iconograficamente molto simile a quella presente ne L’esorcista (la lugubre scalinata che si arrampica di fianco alla casa di Regan, la ragazzina posseduta dal demone Pazuzu). Ebbene, nei due film è possibile rilevare una certa correlazione tra il male che si impossessa di un personaggio e la discesa lungo le vertiginose scale. Stride, in maniera particolarmente rivelativa e significante, comparare allora due scene: quella del novello Joker che danza scendendo la scale dopo aver massacrato Randall e la morte sanguinosa di padre Karras che si schianta in fondo alle “stesse” maledette scale dopo aver offerto il suo corpo colpevole per liberare dal demone l’innocente Regan. Due idee di violenza, due idee di vittima.
*** Note: (1) Parlando della differenza tra mito e testo di persecuzione Girard commenta: «Ritroviamo la peste, l’indifferenziazione, la violenza intestina, il malocchio della vittima, l’empia hybris, i delitti contro natura, l’avvelenamento del cibo e delle bevande, purificazione della comunità. La sola differenza è che nei testi di persecuzione, la sacralizzazione della vittima è o del tutto assente, oppure appena accennata; predomina piuttosto la connotazione negativa.». I testi di persecuzione hanno così la virtù di gettare una luce chiarificatrice sul funzionamento della violenza e del meccanismo vittimario.
di Matteo Bisoni
Questo articolo è stato già pubblicato su Delle cose nascoste, un blog che dalle idee di René Girard cerca di dare una nuova chiave di lettura sia della società che dei suoi prodotti culturali. Abbiamo voluto pubblicare questa rubrica perché crediamo che il pensiero di questo studioso, un intellettuale sorprendente che ha dato un contributo originale nei campi di studio più disparati (si spazia dalla letteratura all’antropologia, dalla sociologia alla storia delle religioni) sia di fondamentale importanza per coltivare una visione critica sul mondo, soprattutto sulla nostra contemporaneità.