Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Interviste

Intervista a Giorgia Tribuiani

su “Guasti”, Voland (2018)

Intervista a Giorgia Tribuiani

Gianluca Garrapa:

«Un nuovo amore?

Ho paura a dirlo. Ho paura di scoprire che non si tratti di amore, ma di un’altra dipendenza.

E l’amore non è anche questo?»

La trama di Guasti è presto detta, semplice, quanto geniale: il compagno di Giada, noto fotografo di fame internazionale, dona il suo corpo all’arte della plastinazione dell’anatomopatologo dott. Tulp per la sua mostra di cadaveri plastinati. Giada, per un mese intero, per tutta la durata dell’esposizione andrà a trovare il corpo del suo compagno, perché? Per parlarci, per capirsi? Perché si scrive della morte, o dell’amore, o della vita? Perché, secondo te, si scrive?

Giorgia Tribuiani: Guasti è in buona parte un libro sullo “sguardo”, sulla sua capacità di deformare l’ambiente circostante, di modellarlo: in questo senso, Giada non riesce a percepire la mostra come un semplice visitatore, come un curioso chiamato a contemplare delle opere; per lei la mostra è un cimitero, il luogo dove dire addio all’uomo amato. Lei si muove dunque per il commiato, per affrontare un lutto che tuttavia – in assenza di un rito, con il corpo morto intrappolato nel presente; con il corpo disabitato – non può essere elaborato. Finché a un certo punto questo corpo, come giustamente dici, diventa un mezzo per capirsi, si fa specchio: l’immobilità della morte, il guasto definitivo per eccellenza, permette a Giada di scoprirsi a sua volta immobile (intrappolata nella mostra, in un ruolo, o semplicemente nel passato), ma in un modo reversibile.

Lo sguardo, del resto, è forse la risposta anche alla domanda “perché si scrive”: una domanda complessa e alla quale credo di aver risposto in modi sempre un po’ diversi. In definitiva, tuttavia, penso che per me la scrittura sia un modo di guardare – a volte ho la sensazione di non capire mai a fondo qualcosa finché non ne scrivo, a partire dal dolore che la scrittura permette di convertire in bellezza – e di essere guardata.

A volte, comunque, mi chiedo se una risposta ci sia davvero, a questa domanda, o se scrivere non sia semplicemente un istinto, un bisogno di cui a volte non è possibile fare a meno e che non sappiamo mai spiegarci fino in fondo.

G.G.: «Spieghi a questi ragazzi come funziona la plastinazione, chissà che uno di loro non voglia scoprire il limite tra essenza ed esistenza».

La plastinazione: come è nata l’idea di affrontare un argomento del genere? Spiegaci un po’ quali sono state le eventuali difficoltà e invece le soddisfazioni nel raccontare intorno a tale argomento.

G.T.: L’idea è nata visitando una di queste mostre: ero lì per accompagnare un amico, e mentre lui guardava i corpi plastinati mi sono sorpresa a osservare invece i visitatori: entrando, trovandosi di fronte al primo cadavere, avevano un piccolo shock, si irrigidivano, parlavano a bassa voce, ma man mano che la visita proseguiva – e i corpi iniziavano a diventare due, cinque, trenta – nasceva in loro una sorta di assuefazione; era come se la morte, venendo ripetuta, reiterandosi, perdesse in qualche modo di significato, come quando in televisione si parla di morti, o quando su un pacchetto di sigarette si legge la frase “il fumo uccide”: questa parola, ripetuta così tante volte, viene desemantizzata. Tanto più che alle mostre di corpi plastinati ci si approcciava, e tuttora ci si approccia, con lo sguardo del curioso, del visitatore.

Mi sono chiesta, allora, e qui torniamo al tema della tua prima domanda, cosa sarebbe successo se a un certo punto fosse entrato qualcuno con uno sguardo diverso; qualcuno con un approccio differente e unico nei confronti di uno di questi corpi.

L’unica vera difficoltà è stata far sì che non ne venisse fuori un romanzo “macabro”, orrorifico, e contestualizzando l’intera storia in una mostra di cadaveri questa era certo una bella sfida: spero di esserci riuscita almeno in parte filtrando l’intera storia attraverso la mente di Giada; attraverso uno sguardo non d’orrore, ma di calore umano e di pietà.

G.G.: «tu questo volevi? rinunciare alla pace della terra per bagnarti ancora di sguardi, offrire agli sguardi anche ciò che era mio? Hai aspettato la morte per deridermi, hai aspettato la morte per tradirmi! Io per sempre prigioniera dei tuoi clic, a te bastava solo un clic, mentre tu non ti sei mai donato a me, non mi hai lasciato nemmeno il ricordo dell’uomo che eri, tu sei ancora qui, sempre qui a ricordarmi quanto sei distante, quanto sei tuo, quanto sei tu».

Il romanzo pare raccontare l’impossibilità di elaborare un abbandono, soprattutto l’incapacità di lasciare andare l’immagine della persona che non c’è più. Giada è tormentata, arrabbiata, sola. Nonostante in questi 30 giorni, nel museo accadano cose semplici, ma fondamentali. Incontri, confidenze, follie e momenti di riflessione. Giada intraprende una sorta di viaggio che la porterà a conoscere la sua immagine interiore, quella ulteriore, non il riflesso nello specchio o la posa statica della Reflex. Il romanzo è una storia sullo sguardo che si allontana dall’occhio e che interpreta il mondo senza sorbirlo passivamente. Lo sguardo di Giada, quello del pubblico e quello immemore del plastinato. Lo sguardo al passato che qui, pare, sta tutto avanti, e il futuro, nel paradosso di una vita disgregata, è rimasto bloccato come una farfalla nell’ambra, indietro, nel ricordo. C’è molto sguardo in questo romanzo, e molta immobilità fremente… che rapporto ha con lo sguardo l’arte del romanzo? 

G.T.: Credo sia un rapporto inscindibile, al punto che esistono delle vere e proprie “storie dello sguardo” e tanto che diversi sguardi (o lo stesso sguardo preso in momenti diversi) sono capaci di conoscere e poi raccontare una stessa storia in modi completamente differenti; modi che, del resto, potranno essere completamente rielaborati, o addirittura “traditi” dagli sguardi dei lettori. Lo trovo affascinante.

Durante le presentazioni di Guasti, per esempio, è stato bello vedere che la mia storia poteva diventare tante storie quanti erano i suoi lettori: c’era chi vedeva nel rapporto tra Giada e il suo compagno plastinato l’eterna storia del talento e del genio e chi invece leggeva la vicenda della protagonista come una vicenda di emancipazione femminile; chi riteneva il compagno un egoista e chi invece era convinto che ad aver “sbagliato”, arrendendosi e squalificandosi per paura di non poter vincere il confronto, fosse lei; e non di rado mi è capitato di sentire considerazioni che io stessa, nello scrivere questo romanzo, nella limitatezza e finitezza del mio sguardo, non avevo neppure immaginato.

Credo quindi che lo sguardo sia legato in maniera indissolubile all’arte del romanzo, così come alla fruizione di quest’ultimo. E se spesso, insegnando scrittura creativa, mi sono trovata di fronte alla domanda: c’è qualcosa che non è possibile insegnare?, ecco io credo che la risposta – nonostante lo si possa in qualche modo educare – sia proprio: lo sguardo.


G.G.: «Perché l’arte è un prodotto dell’uomo, il segno tangibile della sua grandezza, certo, ma anche della sua fragilità. Arte è solitudine, il tentativo di fermare qualcosa di vero e la speranza che qualcuno si fermi a guardarlo. Arte è prendere il proprio dolore, la propria disperazione, e provare a convertirli in bellezza, trovare al male un senso e una posizione; una giustificazione. Arte è comprendere di essere di passaggio, gratuiti, superflui, e non saperlo o volerlo accettare. Arte è non farsi bastare questo mondo ed essere così arroganti da voler creare altra esistenza, e respirare quello e vivere di quello. Arte è una parola: la dicono i critici con gli occhi dietro gli occhiali e un corpo plastinato davanti e la fanno diventare realtà. Potrebbero dirlo adesso, registrare queste mie frasi e dire accorrete, questa è arte, venite a sentire, ma il mio discorso resterebbe solo un mucchio di pensieri storti in cerca di un orecchio capace di ascoltare».

È uno dei passaggi più belli del romanzo.

La vita è guasta quando non si riesce a elaborare il lutto. Mi vengono in mente le parole del filosofo Mario Perniola, L’arte e la sua ombra, secondo cui l’arte o sarà criptica o non sarà, nel senso che, a partire dall’idea freudiana dell’elaborazione del lutto, si possono assumere due atteggiamenti: o la malinconia perenne di chi non riesce a superare creativamente l’abbandono, con conseguente sviluppo paranoico-depressivo per cui gli altri esseri umani diventano la causa del proprio malessere; o l’elaborazione del lutto e dell’abbandono, per cui l’amore, il desiderio, rivolti un tempo alla persona amata e perduta, vengono canalizzati su oggetti esterni, altri. Per Perniola si può assumere una posizione mediana in cui il dolore del lutto permane dentro di me, senza che nessuno ne sappia nulla, nascosto allo sguardo altrui: insomma la narrazione del lutto avviene in una maniera tale da non costruire una ‘storia’, una trama che giustifichi il trauma: si narra senza raccontare e in questo modo si differisce la storia senza differenziare il contenuto e renderlo plot o, appunto, narrativo. Questo è anche quel che si intende, secondo me, per narrazione desiderante: la trasmissione di un sentire che attraverso le parole, ma non solo, ci può condurre a patti con il nostro desiderio, laddove, patologicamente, lo abbiamo smarrito o vi abbiamo rinunciato, come fa Giada prima di risvegliarsi e rompere il guscio della sua sofferenza, per smettere di odiare o di rivolgere lo sguardo alla ricerca di un altro essere da amare, e dare voce all’essere che ci vive dentro. Come dice Artaud, che tu citi: “Credo che da me venne fuori un essere, un giorno, che pretese d’essere guardato.” La tua scrittura è influenzata, in qualche modo, dall’arte della performance e del teatro? E che ruolo ha il desiderio nella tua creazione?

G.T.: Ti ringrazio molto per queste considerazioni e per queste domande, perché il teatro e la performance, negli ultimi anni, stanno in qualche modo permeando la mia scrittura. Già in Guasti, nelle continue visite alla mostra di plastinati, c’era un vero e proprio “andare in scena” di Giada, un oscillare tra la rappresentazione teatrale (come tutti i plastinati, lei era parte dello spettacolo, interpretava “la compagna di”) e la performance (che si distanzia dal teatro proprio perché ogni azione è reale, forse lo è ancora di più che nella realtà, e il pubblico fa parte dell’evento); lo stesso bagno in cui Giada correva a rifugiarsi non era che un dietro le quinte, un posto dove tornare una volta lasciato il palcoscenico.

Questo discorso iniziato con Guasti trova poi la sua più naturale continuazione in Blu, il mio secondo romanzo in uscita per Fazi: qui il disturbo ossessivo-compulsivo della protagonista, i suoi gesti, la vita stessa si fanno performance; i rituali trovano uno sbocco creativo e l’arte e la vita diventano inscindibili, l’una nutrimento dell’altra. La frase che citi, di Antonin Artaud, è posta proprio in esergo, come a invitare i lettori a sintonizzarsi, appunto, con questo sguardo e a vivere il romanzo stesso come una lunga performance.

Quanto al desiderio, io credo che di questo discorso, e della performance stessa, vada a interpretare dunque la carica vitale.

G.G.: «Che forse, se non avesse conosciuto il suo uomo, avrebbe fatto arte anche lei.

Giada scacciò l’idea col gesto di una mano. No, no, si sbaglia, non è come crede, no, ma per la prima volta, mentre ancora scuoteva la testa, pensò che non era la plastinazione di lui, ma quella di una vita intera ad averla ridotta così: intrappolata in uno scatto, immobile, come nella foto sull’altalena che lui amava tanto e forse, forse era per quello che la amava, perché lì, sola, per sempre ferma, era davvero lei […]».

Il romanzo dunque ruota intorno alla cosa, all’assenza, alla mancanza. Attraverso un discorso indiretto libero dove tra voce narrante e personaggio non c’è soluzione di continuità, l’ordine dei capitoli è al contrario, dal 30 a 1. Nonostante che tra narrante e narrata, mi verrebbe da dire tra significante e significato, se l’autrice potesse essere un significante di cui il contenuto del romanzo è il significato, nonostante il continuum tra macchina da presa, tra sguardo e oggetto, ben distinguiamo autrice e personaggio. Eppure non ci sono le virgolette a separare, a contenere dialoghi. È un flusso, questa scrittura, di cui percepiamo i punti, i particolari. Come nasce questo romanzo? Come lo hai costruito? E la protagonista? Che lavoro hai fatto per renderla credibile e distanziarla dalla persona dell’autrice?

G.T.: Trovo che alcune scelte stilistiche siano assolutamente inscindibili dal contenuto che vanno a veicolare, e in questo caso la scelta del discorso indiretto libero mi ha permesso di entrare e uscire liberamente dalla testa di Giada, lavorando su quello che viene definito un “narratore inattendibile”: se la narrazione in terza persona tendeva a dare credibilità alla storia narrata, gli scivolamenti in prima o in seconda mi concedevano di entrare nella mente di Giada prendendo per buono il suo punto di vista deformante, o appunto di guardare al corpo morto con affetto, e non con orrore. Tutto, mentre il countdown si occupava di trasmettere al lettore il senso del tempo, un altro tema piuttosto centrale nel libro: Giada era infatti chiamata ad agire prima della fine della mostra, certo, ma soprattutto prima dello scadere del suo stesso tempo, dell’arrivo del guasto irreversibile.

Per quanto riguarda appunto Giada, io credo di aver preso le mie paure (in primis il senso di inadeguatezza, il timore di non essere abbastanza) e di averle affidate a lei; come una volta mi disse il mio maestro e amico Giulio Mozzi, stavo proiettando una parte di me in un personaggio che “avrebbe potuto essere me se il coraggio e la fortuna non mi avessero assistita”.

Credo comunque che le scelte e il lavoro sui personaggi riguardino solo l’inizio della stesura di un libro: a un certo punto, dotati di relazioni e di un passato, questi iniziano ad agire per volontà propria, e per l’autore diventa difficilissimo – oltre che spesso controproducente – non starli ad ascoltare.

G.G.: Questo è un domandone cui puoi anche non rispondere e che però nasce dalla curiosità di comprendere i luoghi e il corpo dello scrittore:

Dove scrivi, quando scrivi, dove cammini quando ti riposi?

In quale città o paese è nato il tuo ultimo libro, in che stanza, in che bar?

Sei mancino\a o destrorso\a?

Passeggi?

In bici, in auto, osservi alberi?

Scruti cornicioni, affondi lo sguardo nel cielo, segui le onde del suono dell’acqua?

Quali sono i rumori della città e quali i silenzi delle vaste campagne?

Fumi?

Bevi?

Quanto pesi?

Scrivi dopo cena, prima di pranzo?

Quando?

La tua è scrittura di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo?

G.T.: Scrivo sul letto, è l’unico posto dove mi concentro davvero. Tra una sessione e l’altra spesso vado in cucina a prendere la Coca Cola.

Sono destrorsa.

Passeggio solo se ho intorno un bel posto dove passeggiare: per esempio quando sono a casa dei miei al mare; mentre scrivevo Blu, però, ho addirittura corso, al parco e tutti i giorni: pensavo che sarei arrivata a fare le maratone, a un certo punto, ma – ahimè – non ho mai superato i cinque chilometri.

Osservo gli alberi. Ho una passione per l’eucaliptus, perché mi ricordano quando ero piccola e andavo ai campi da tennis con papà.

Forse non guardo i cornicioni, ma mi capita spesso di contare i comignoli. Mi piacciono le albe d’Abruzzo e i tramonti di Roma e di Bologna: guardo spesso insù, e infatti a volte inciampo. Le onde le amo, ma sono la più grande nostalgia: sono vissuta per diciott’anni di fronte al mare, e il suono lo si sentiva anche solo aprendo la finestra. Mi manca ogni giorno.

Ho vissuto a Roma. I suoi suoni erano i clacson e le battute in romanaccio gridate così forte. A Bologna, in via Ugo Bassi, c’è sempre qualcuno che suona. Che la campagna sia silenziosa non è poi sempre vero: le cicale sono assordanti; gridano più dei romani.

Non fumo più.

Bevo, ah, quello sì. Amo il vino bianco, la birra chiara e il Moscow Mule.

Uh, mi chiedi il peso dopo il lockdown? Questo è illegale, si sa.

Scrivo quasi sempre nel pomeriggio o la sera: l’importante è aver finito le incombenze quotidiane, perché ho bisogno della mente libera.

La mia è una scrittura di stasi, se consideriamo che sono sul letto, ma in realtà mi sposto continuamente: incrocio le gambe, le allungo, mi abbandono contro lo schienale, faccio slittare il computer in avanti mettendomi distesa sulla pancia, poi ruoto, mi alzo e riprendo in braccio il pc. C’è tanto corpo, sicuramente. In fondo anche la scrittura è performance, no?

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