Dove la guerra ha lasciato le tracce
il paese abbandonato che conserva gli orrori della Guerra Civile spagnola
Belchite, piccolo comune spagnolo nella provincia di Saragozza, Aragona, conserva attraverso un tempo che sembra non scorrervi più, i resti dei suoi edifici distrutti dalla ferocia dei combattimenti e delle bombe impietose. E in essi permane – risuonando come un’eco sinistra che pare manifestarsi tuttora – l’agonia delle vite che vi furono spezzate: 6000.
Seimila voci ed anime che, a detta di alcuni, ancora si aggirano tra le rovine; suggestione che attanaglia e intriga chi s’interessa di fenomeni paranormali, tanto che sono particolarmente numerosi i casi e le testimonianze di cosiddette “psicofonie” – ovvero manifestazioni di presunti spiriti tramite registrazioni audio – rilevate in quei luoghi pieni di mistero e di Storia. Sebbene di dubbio valore e attendibilità, l’attenzione verso tali fenomeni è sintomo dell’aura quasi palpabile che avvolge Belchite: di un passato doloroso ancora visibile, passato in cui il paese pare cristallizzato e in cui resta sospeso, fuori dal tempo in un perpetuarsi dell’attimo in cui la guerra, la violenza, la bruttezza umana, l’ha reso ferita eternamente aperta. Infatti, proprio perché abbandonato e lasciato inalterato nel suo stato post-bellico, si presenta a noi come vividissimo squarcio temporale, varco dentro al quale possiamo toccare con mano il pulsare della Storia, le Vicende che lo hanno segnato.
Tali vicende risalgono al 1937: è nel pieno della Guerra Civile spagnola, poco più di un anno dopo il colpo di Stato militare dei “nacionales” di Franco, pronunciatisi contro la legittimità repubblicana, che ebbe luogo la battaglia di Belchite. Essa fu un tentativo dei militanti repubblicani, con l’appoggio dei volontari della Brigata Internazionale, di respingere l’avanzata dei franchisti nel nord della penisola; la loro resistenza, che impedì un immediato successo alle forze di destra, era in quell’anno sempre più minacciata: essi mantenevano il controllo di Catalogna e Nuova Castiglia, ma i rimanenti territori erano già in mano ai golpisti, così come parte dell’Aragona.
L’offensiva dei “rossi”, ovvero dei leali al Governo Repubblicano, aveva appunto come obiettivo Saragozza, capoluogo aragonese, ma si arrestò presso Belchite; il paese fu assediato e, tra il 22 agosto e il 5 settembre del 1937, fu teatro d’una devastante battaglia che coinvolse i civili e risultò essere un’inutile massacro, danneggiando entrambe le parti e sopra ogni cosa quel suolo ormai inservibile, fatto di edifici sventrati e macerie inquietanti. Evento simbolo della guerra civile nel suo complesso, che su scala più ampia fu, come questa battaglia, un fratricidio che distrusse un paese che, prima, era del popolo, e lo ridusse in ginocchio.
Il “pueblo viejo” di Belchite fu abbandonato nel 1964 e lasciato in rovina, per volere di Franco. Egli volle infatti ricostruire un nuovo paese accanto – sfruttando la manodopera dei prigionieri repubblicani, per i quali creò un campo di concentramento nelle vicinanze – e mantenere i resti del vecchio immutati, come forma di propaganda per il regime. Tale regime, è bene ricordare, aveva come sola legittimazione l’aver vinto la Guerra Civile; e proprio nella guerra, nella violenza, nella repressione e distruzione della Repubblica – e insieme ad essa delle libertà e dei diritti civili – affondava le sue radici.
Di tutto ciò sono intrisi i muri di quegli edifici violentati, che in Belchite restano come segno incancellabile e concretissimo di ciò che vuol dire una guerra e di quel che rimane. Perché è in quel che resta, mozzato ed orfano, nel vuoto che conserva, che risuonano le grida d’un dolore sempre vivo e presente.
Articolo a cura di Elena Cappai