Il rapporto tra passato e futuro ne “La figlia dell’ottimista” di Eudora Welty
Nel 2018, la casa editrice minimum fax pubblica La figlia dell’ottimista di Eudora Welty (The Optimist’s Daughter,1972) – già edito Fazi editore nel 2005 con traduzione di Isabella Zani – tradotto da Simona Fefè. Questo gioiello di narrativa breve valse il Premio Pulitzer all’autrice (1973) e sancì il successo di una delle principali esponenti della Southern literature, attenta a temi come il ruolo della famiglia e degli affetti, l’importanza della comunità e i cambiamenti della società del sud degli Stati Uniti, grazie a uno stile che deve molto da un lato al realismo e dall’altro all’oralità.
Il romanzo si apre con la figura possente del giudice settantunenne Clinton McKelva, per tutti Clint, che si reca a New Orleans insieme a sua figlia, Laurel McKelva Hand detta Polly, e a sua moglie Wanda Fay, di trent’anni più giovane rispetto al marito. Clint sta andando a farsi operare all’occhio destro. Dopo l’intervento, conosciuto ai più per il suo ottimismo, McKelva però si abbandonerà all’apatia, fino a morire per un collasso. La morte del giudice e il trasferimento della salma a Mount Salus, nel Mississippi, rappresentano per le due donne un’occasione importante: da un lato Laurel si confronterà con le memorie del suo passato, legate soprattutto ai genitori, il giudice McKelva e sua madre Becky; dall’altro Fay si confronterà con la comunità di Mount Salus – di cui non fa parte poiché proveniente da Madrid, in Texas – e quindi con una mentalità molto diversa dalla sua, basata sul rispetto delle tradizioni, degli affetti e della famiglia.
La differenza fra le due donne è evidente fin dall’inizio, quando si trovano a New Orleans. Laurel cerca di prendersi pazientemente cura del padre, stimolandolo a mangiare e leggendogli ad alta voce qualcosa, come Nicholas Nickelby di Charles Dickens, libro preferito del padre, dimostrando di avere rispetto per l’istituzione della famiglia e del suo ruolo come figlia. Fay invece si mostra impaziente ed egoista, poiché il marito si è operato il giorno del suo compleanno, manifestando interesse solo per sé stessa, senza legami persino con la propria famiglia, i Chisom, al punto da dire alla figliastra che sono tutti morti.
Tornate a Mount Salus, Laurel e Fay trovano le damigelle del matrimonio della prima ad accoglierle, tra cui Miss Tennyson Bullock e sua figlia Tish, Miss Adele Courtland, e il maggiore Bullock, amico del giudice McKelva, pronti a dare il proprio conforto e affetto alle due protagoniste. Se Laurel ha piacere a ritrovare i suoi vecchi affetti, Fay appare subito contrariata nel vedere delle persone a lei estranee in quella che adesso è casa sua.
Fay deciderà di isolarsi in camera per quasi tutta la cerimonia, rifiutando il conforto degli invitati, disposti persino a invitare la sua famiglia dal Texas. Il contrasto tra Fay e Laurel, se non addirittura tutta la comunità di Mount Salus, emerge non solo nel suo atteggiamento verso la famiglia e la comunità, ma anche quando decide di seppellire il giudice McKelva lontano dalla prima moglie Becky, nella parte nuova del cimitero, come a indicare un distacco definitivo con la tradizione e il passato.
Ed è proprio nel rispetto della memoria, del passato e della famiglia che emerge un’altra grande differenza tra Laurel e Fay. Prima di ritornare alle due protagoniste, vale la pena citare una metafora che usa Eudora Welty per parlare del passato: quella della vista e degli occhi. Un tema presente già all’inizio con l’intervento del giudice McKelva e nella terza parte del romanzo, attraverso i ricordi di Laurel, con la morte di Becky, che per un ictus aveva perso completamente la vista.
Fu allora che suo padre divenne quello che lui stesso torvamente definiva un ottimista: forse aveva ripescato quella parola dalla sua infanzia. Amava la moglie. Accettava qualsiasi cosa facesse e che le fosse impossibile non fare. Accettava qualsiasi cosa che le passasse per la testa di dire. Ma era sbagliato, sbagliato! Il guaio di Becky stava in quella disperazione. E a provocarla era l’uomo che amava disperatamente e che si rifiutava di riconoscere la sua disperazione. Tradimento su tradimento.
L’ottimismo del giudice, in realtà, non è segno di un vero amore per la moglie, e dunque per un passato d’affetto trascorso assieme. L’amore affiora anche nel dolore, quello che prova Becky durante la malattia, ma il giudice McKelva si rivela in realtà essere incapace di aiuto, di comprensione. A riprova di ciò è anche il matrimonio con Fay dopo nemmeno un anno che l’ha conosciuta, segno di un cieco ottimismo verso il futuro senza pensare a cosa si è perso in passato e a come sarà l’avvenire. Ma è proprio questo ottimismo che farà morire il giudice, quasi a significare che il motivo per cui McKelva è morto sia quello di aver tradito la memoria della sua prima moglie Becky, accettando di sposare una donna che invece di compatirlo lo scuote violentemente e vuole solo impossessarsi della sua casa.
Anche gli abitanti di Mount Salus, però, sembrano tradire il passato, soprattutto perché ricordano il giudice come un eroe, mistificandolo, mentre in realtà per Laurel era una persona fragile:
“Questa è ancora casa sua. E in fin dei conti, questi sono ancora suoi ospiti. Ne stanno facendo un ritratto poco veritiero. Mamma direbbe che lo stanno mistificando”. Laurel provò l’impulso di testimoniare in favore del padre, come se in quella stanza lui fosse sotto processo, invece che esposto in una bara.
“Non avrebbe mai tollerato delle menzogne sul suo conto. In nessun momento. In nessun caso”.
“Sì, invece, se la verità avesse ferito la persona sbagliata”.
“Sono sua figlia. Voglio che quel che la gente dice corrisponda al vero”.
La cecità riguarda sia gli abitanti di Mount Salus, che tanto hanno amato il loro amico, sia Fay, che tanto disprezzava Becky e disprezza gli invitati al funerale, i quali rappresentano un passato ingombrante di cui disfarsi. Chi però riacquisterà la vista e riuscirà a riappropriarsi dei propri ricordi, è Laurel. Nella quarta parte del romanzo, in attesa di ripartire per Chicago dove lavora come disegnatrice, si muoverà per tutta la casa, guardandosi attorno e scavando negli oggetti e nei ricordi della sua famiglia: i libri del giudice, le lettere che si scambiava con la moglie quando lei e la figlia erano in West Virginia per le vacanze, la macchina da cucire, le fotografie e la pietra di fiume d’ardesia che Becky e il giudice McKelva si erano scambiati come segno d’amore quando si erano conosciuti. Dopo aver trovato il suo nome tra le lettere che Becky si scambiava con la madre, però, Laurel ha un’epifania:
Laurel fu investita da un’ondata di emozioni. Si lasciò sfuggire i fogli dalle mani e i quaderni dalle ginocchia, poggiò la testa sulla ribaltina abbassata e pianse il suo dolore per l’amore e per i morti. Stette lì, con tutto ciò che di perentorio c’era nella sua resa quella notte… nella sua resa, finalmente. Ora le cose che aveva trovato avevano trovato lei. La fonte custodita in fondo al suo cuore era riaffiorata e aveva ripreso a zampillare.
Parafrasando la stessa Eudora Welty, sopravvivere ai genitori e al marito Phil sarà pure la fantasia più assurda, ma in quella casa con le luci accese «scintillante e silenziosa» per la luce primaverile, Laurel matura una nuova consapevolezza delle cose: comprende, infatti, che «la sua vita, ogni vita, non fosse altro che la continuità dell’amore che portava con sé»: anche se il tempo passa e i propri affetti scompaiono, è sempre possibile amarli attraverso il ricordo. E il motivo per cui ha questa epifania è che Laurel, in inglese «alloro», la pianta dei poeti, incarna il personaggio più simile alla scrittura e alla letteratura. È colei che deve scavare nelle vite altrui, pur provando dolore, e cercare di recuperarne i ricordi per farli rivivere.
È proprio sulla questione della memoria degli affetti che si riaccende lo scontro tra Laurel e Fay, nel frattempo ritornata nella casa del giudice, dopo essere stata in Texas con la famiglia. A causare l’ennesimo litigio è un oggetto tanto caro a Laurel: la spianatoia che il marito Phil aveva realizzato per la suocera Becky. Anche quest’oggetto mostra la mancanza di rispetto del futuro, incarnato da Fay, verso il passato.
“Non capisco perché tu la stia facendo tanto lunga. Che cosa ci vedi in quell’aggeggio?”, chiese Fay.
“Tutta la storia, Fay. Tutto il solido passato”.
“La storia di chi? Il passato di chi? Non i miei. Il passato non mi interessa. Io appartengo al futuro, non lo sapevi?”.
Tuttavia, Fay non può distruggere la memoria di ciò che è stato. Esso continuerà a vivere nel cuore di Laurel, che, pur consapevole di non poterlo possedere del tutto, sa che lo può portare con sé, e il futuro non può impedire le emozioni che la memoria del passato ci dà:
Il passato non è esposto alla salvezza o al danno più di quanto non lo fosse papà nella bara. Il passato è come lui, inaccessibile, impossibile da risvegliare. E il ricordo è un sonnambulo. Si presenterà con le sue ferite dall’altra parte del mondo, come Phil, ci chiamerà per nome e pretenderà le lacrime che gli dobbiamo. Il ricordo non sarà mai inaccessibile. Di tanto in tanto lo potremo ferire, ma forse la sua estrema misericordia risiede proprio in questo. Fintanto che si esporrà, vulnerabile, all’attimo vitale, sarà vivo per noi, e fintanto che sarà vivo, fintanto che ne saremo capaci, noi gli pagheremo il dovuto. […] Il ricordo non viveva nel possesso iniziale ma nelle mani libere, assolte e libere, e nel cuore capace di svuotarsi e tornare a riempirsi, nelle fantasie restituite dai sogni.
In questo breve romanzo Eudora Welty insegna come, nonostante il futuro prenda il posto del passato e l’individualismo e l’egoismo si impongano sul senso di comunità e di famiglia, ci sia sempre nel nostro cuore un Mount Salus a cui possiamo tornare, perché i ricordi degli affetti e degli amori vivranno sempre nella nostra memoria, e il futuro non potrà cancellarli. La vita continua nel cuore di chi ricorda, soprattutto nel cuore dell’autrice, che non solo nelle sue opere di narrativa ma anche nelle sue tante fotografie ha dimostrato come sia importante conservare la memoria di ciò che è stato, perché solo così continuiamo ad amare e possiamo far vivere chi, sia nell’amore che nel dolore, è stato parte delle nostre vite.
di Alberto Paolo Palumbo