Il futuro (passato) disvelato dalla pandemia – intervista a Giorgio Triani
Riccardo Grozio dialoga con il sociologo e futurologo Giorgio Triani, autore nel 2018 di Allegre Apocalissi (Castelvecchi), un saggio che prefigura, come recita il sottotitolo, Il (passato) futuro che ci attende e che con la pandemia, forse, è già arrivato.
La mia conoscenza con Giorgio risale a metà degli anni Ottanta quando a più riprese ci siamo incrociati nell’ambito degli studi sociologici e antropologici sullo sport, che muovevano i prima passi nel nostro paese. A tale proposito Triani in Allegre Apocalissi spiega come il neotribalismo riaffacciatosi nel mondo della globalizzazione fosse stato già preannunciato, con largo anticipo, dalle tribù del calcio (hooligans, ultras, ecc…), protagoniste di “guerre surrogate” che hanno giocato su vecchi risentimenti, campanilismi, e rivalità etniche, provocando devastazioni, violenze e danneggiamenti urbani, soprattutto in occasione delle sfide internazionali più importanti. In altre parole, parafrasando Von Clausewitz, «il calcio come continuazione della guerra in altro modo».
Riccardo Grozio: Sei d’accordo che la deriva delle “piccole patrie” e il localismo contemporaneo non possano essere spiegati unicamente come reazione alla globalizzazione ma abbiano radici più antiche che affondano nella crisi delle ideologie progressiste, dell’illuminismo e del socialismo, in particolare?
Giorgio Triani: Come sempre credo valgano i corsi e ricorsi di Giambattista Vico. Sia pure in una visione dinamica della relazione passato-presente-futuro. Nel senso che più che una ruota bisogna immaginare una spirale. In cui tutto ritorna, ma in forme che presentano sempre delle novità. Non foss’altro perché il dejà vu s’inscrive in un contesto tecnologico completamente nuovo. Talché è vero che la società attuale assomiglia molto a quella dell’ancien régime, ma se quella era pre-industriale quella di oggi si misura con le tecnologie digitali, big data e intelligenza artificiale. Cosa questa che materializza un futuro antico ma nuovo di zecca, se posso dirla con un gioco di parole.
Ma per rispondere precisamente alla tua domanda la risposta è sì. Oltre alla globalizzzazione e alla “fine della storia” come si scrisse all’indomani del crollo del Muro di Berlino, era già in azione da tempo la fine delle ideologie che avevano plasmato la società dal secondo dopoguerra. Dove c’erano idee e visioni del mondo forti, perfino totalizzanti, e appartenenze politiche altrettanto determinate (il socialismo e il liberalismo, il Pci e la Dc) ora ci sono ideologie pret-à-porter, appartenenze deboli. Siamo una società liquida per dirla con Bauman, sociologo che ha fatto scuola negli ultimi venti anni. È in questo contesto che tutto e tutti si sono messi in libertà. Si sono lasciati andare.
R.G.: Nella torsione sulla direttrice della storia dall’asse temporale a quello spaziale, verificatasi negli anni Ottanta, alcuni studiosi come il francese Michel Maffesoli, parlarono esplicitamente di ritribalizzazione della società. Il processo di reincantamento del mondo, parallelamente all’affermarsi dell’ecclettismo post-moderno segnò l’inizio di una nuova epoca contraddistinta dal tramonto delle grandi meta-narrazioni, che fino ad allora avevano dominato incontrastate la società. Non credi che le radici del localismo contemporaneo, al di là degli effetti della globalizzazione e del web, risalgano a quel periodo?
G.T.: Anche qui la risposta è sì. Come è noto dagli anni ’80 del secolo scorso è apparsa la società post moderna, secondo la nota definizione di Jean-François Lyotard. Caratterizzata dalla fine del “grandi narrazioni” (la Patria, la Famiglia, la Tradizione, ecc…) e da un riorientamento valoriale che ha visto ridursi grandemente il ruolo e la presenza della sfera pubblica a ogni livello della vita sociale e quotidiana, e viceversa affermarsi prepotentemente la dimensione privata e individuale. Successo e soldi, affermazione di sé e indifferenza al bene comune sono i nuovi valori riassunti nella celebre espressione “edonismo reaganiano” e nell’altrettanto celebre affermazione «lo Stato non è la soluzione ma il problema». E così, per dirla sbrigativamente, che dalla militanza partitica, dalle sezioni e parrocchie si approda alla “Milano da bere” e al culto del look.
R.G.: Dopo averci girato intorno, veniamo all’aspetto forse più attuale del libro che in qualche modo ha preconizzato l’avvento della pandemia. In sintesi sostiene Triani che a forza di gridare al lupo al lupo, alla fine il lupo arriverà «…un quotidiano, ancorché minimo, annuncio di cattive notizie, alla lunga genera, e non potrebbe essere diversamente, il presentimento che qualcosa di molto serio prima o poi accadrà. Inevitabilmente. In altre parole si genera un’attesa del peggio, che una volta innescata si autoalimenta. Secondo gli svolgimenti classici che hanno le profezie che si auto-adempiono». Quando scrivevi delle incertezze del futuro e della tendenza a esagerare ogni fenomeno, citando tsunami, aids, l’epidemia aviaria e la H1N1, dimenticata in fretta da tutti, immaginavi che prima o poi qualcosa di veramente grave, tipo pandemia per l’appunto, sarebbe effettivamente accaduto, oppure tale evento ti ha spiazzato come la maggior parte di noi?
G.T.: Onestamente no. Nessuno proprio nessuno può dire che aveva previsto la prima pandemia globale della storia. Tant’è che nel Global Risk 2020 la messa in luce dei rischi di pandemia erano confinati in 20 righe in tutto e riferiti al fatto che se mai si fosse proposta e diffusa un’epidemia del tipo di quelle sin lì conosciute (tipo aviaria, H1N1 e Ebola) i sistemi sanitari non sarebbero stati in grado di reggere e farvi fronte. Che siano in corso delle apocalissi è fuori discussione e ora con Covid 19 proprio nessuno può negare gli effetti combinati e disastrosi che la pandemia gioca sull’intera società ed economia del globo. La sola cosa che per un momento mi sfiorò e che era in relazione con il saggio che stavo scrivendo era il libro di Dan Brown, Inferno, in cui si racconta di uno scienziato che vuole mettere in circolo un virus per eliminare un terzo dell’umanità e così risolvere il problema di un pianeta sovrappopolato. Ma mi parve che fosse il classico thriller fanta-distopico. Ora continua a sembrarmi tale, però con una capacità di suggestione che può aiutarci a valutare molto più seriamente il rischio pandemico
R.G.: Nel libro definisci il futuro un (tra) passato, un domani dal sapore inedito in cui si afferma uno stile retrò che ripropone dosi massicce di remake e di vintage, un fenomeno accentuato dal web che rappresenta la saldatura fra techno e arcaico, in una visione circolare della storia di tipo vichiano. Alla luce di ciò, quali legami ha la pandemia del Covid 19 con la Spagnola o con le varie pestilenze che hanno flagellato l’Europa nei secoli passati?
G.T.: La relazione è immediata ed è stata sottolineata da tutti. La novità del Covid 19 è il suo carattere davvero planetario. Peraltro si tratta della prima pandemia sanitaria iniziata come pandemia informativa. E qui si può cogliere la relazione della parola “virale” che da un decennio caratterizza la comunicazione digitale (web e social).
R.G.: Con la progressiva scomparsa del lavoro, pesantemente minacciato dall’automazione, prima, e dalla intelligenza artificiale, dopo, c’è una regressione al mondo preindustriale, che condanna molti lavoratori a impieghi sporadici e di breve durata. La precarietà del lavoro giovanile fa crescere esponenzialmente il tempo libero e il consumo di intrattenimento. Come hanno scritto Adorno e Horkheimer: «divertirsi è il migliore modo per non vedere il dolore là dove viene mostrato». La tragedia della disoccupazione e l’angoscia generazionale sono costantemente accompagnate dal lenimento musicale della colonna sonora che segue perennemente i giovani. La pandemia, con la didattica a distanza e il distanziamento sociale, non ha ulteriormente scavato un solco ancor più profondo fra i giovani e fra i giovani e gli adulti, isolandoli sempre più?
G.T.: Il paradosso attuale, in prospettiva sempre più rilevante, è che c’è assoluta abbondanza di divertimento e crescente riduzione di opportunità lavorative. Divertirsi da morire, titolo di un profetico libro di Neil Postman, è già una tristissima realtà. Ovunque nel mondo le generazioni giovanili scontano pesanti pressioni e discriminazioni nel loro cammino formativo e lavorativo. Rispetto ai loro padri e nonni, per loro la prospettiva di un futuro migliore è al momento esclusa. Sussidiati e assistiti, privati della possibilità di rendersi indipendenti appena diventati adulti sono i trenta-quarantenni i più esposti alle grandi trasformazioni in corso; anche perché generazioni di mezzo. Con la pandemia, la formazione a distanza e il distanziamento sociale, ora sono i giovanissimi a essere colpiti pesantemente. Cosicché ora il fronte giovanile è colpito nella sua interezza. E l’Italia più di altre nazioni dimostra di non essere un paese per giovani.
R.G.: Quando sottolinei che la categoria del ludico, Circenses 2.0, tramite i reality e i talent ha introdotto la gamification come paradigma sociale dominante fai riferimento al fatto che il giocare è diventato il presupposto di molte attività di consumo e di shopping, così come i giochi di fortuna sono diventati un’industria che non conosce crisi. La recessione economica generata dalla pandemia ha rilanciato filiere produttive essenziali, come quella alimentare e medico-sanitaria, mettendo, invece, in ginocchio l’intero settore della cultura, dell’intrattenimento, del turismo. Non credi che alla luce di ciò, occorra rivedere certe facili teorie sulla fine del lavoro oppure la pandemia è solo un incidente di percorso?
G.T.: La fine del lavoro è un’espressione gergale. Non una battuta, ma una affermazione che va maneggiata con cura. Nel senso che come in ogni grande fase di cambiamento anche le attività umane e soprattutto quelle lavorative sono soggette a profonde mutazioni. Che in molti casi sono delle scomparse. Si stima ad esempio (ma forse sono già stime superate) che fra vent’anni il 50% dei lavori attuali sarà scomparso e che entro i prossimi trent’anni i robot potrebbero portare a tassi di disoccupazione superiori al 50%. Però ci si deve anche chiedere quali e quanti saranno i nuovi lavori, le professioni che al momento non ci sono, le occupazioni che non riusciamo al momento nemmeno a immaginare. Mi limiterò a citare l’osservazione dello storico economista Joel Mokyr «Chi nel 1914 avrebbe immaginato che i suoi pronipoti sarebbero diventati disegnatori di videogiochi o specialisti di cybersicurezza, o programmatori di GPS o veterinari psichiatri?».
R.G.: La disintermediazione generata dalla rete introduce, con il peer to peer, la “sciagurata gratuità del download”, l’idea che le cose possano anche non costare. I giganti della rete, i cosiddetti Gafa (Google, Amazon, Facebook, Apple), sono i padroni assoluti del mercato con una caratteristica completamente nuova: fanno praticamente lavorare tutti gli utenti social gratis e solo loro incassano i dividendi, preferibilmente esentasse. Come sarà possibile sottrarsi alla dittatura del capitalismo delle piattaforme? Con una equa imposizione fiscale oppure prevedendo un compenso per gli utenti dei social?
G.T: È la storia di sempre. Riprenderanno le lotte dei lavoratori e ritorneranno in forza i sindacati, anch’essi però molto trasformati. Oggi infatti siamo in presenza di uno strapotere del capitale e soprattutto del nuovo capitalismo che è digitale, facendo riferimento alle grandi company del web (da Google ad Amazon), ma soprattutto finanziario. Il tema delle diseguaglianze è sul tavolo, anche se a partire dalle forze politiche, sembra che non se ne faccia niente. Che ci sia dell’altro da discutere e riformare. Mi limito a segnalare che c’è una forte ripresa del socialismo – che era dato per morto – e proprio in luoghi e contesti dove era sconosciuto, come gli Usa, che con la generazione Z stanno riportando al centro del dibattito e delle loro contestazioni, sempre più forti e planetarie, il tema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo ma anche dell’uomo sull’ambiente naturale.
R: G.: Nell’era della bulimia informativa, laddove, fra fake news, verità alternative, e bufale varie, è arduo riconoscere uno straccio di verità fattuale, il ruolo del giornalismo tradizionale è fortemente messo in discussione dalla nuova figura del “giornalista robot”, la cui imparzialità è legata principalmente ai dati e all’algoritmo con i quali viene programmato. Credi che l’Intelligenza Artificiale possa essere efficace per ristabilire la verità, utilizzandola proficuamente per smascherare fake news testuali, ma anche fake audio e video, ormai sempre più diffusi in rete?
G.T.: Più che di giornalista robot, del quale peraltro si stanno facendo sperimentazioni, e delle applicazioni di Ai, credo serva un nuovo tipo di giornalismo umano. Di figure professionali, certo “aumentate” dalla tecnologia e da tante nuove e performanti app, ma in grado di ripristinare l’idea e la pratica di un giornalismo che fa informazione ma anche formazione. Il punto di partenza però deve essere il riconoscimento che anche in questo ambito siamo in piena rivoluzione. Dove c’erano inviati speciali, troupe televisive, caporedattori e altre figure istituzionalizzate ora ci sono influencer, videomaker, youtuber, instragramer, tiktoker. Sta cambiando il mondo, deve per forza cambiare il giornalismo.
R.G.: Nella società “mobile&digitale” si fanno strada con grande facilità bufale apocalittiche, ampiamente anticipate dalla fantascienza, sia nella versione catastrofista che in quella utopica. Tra questo dedalo di scenari, la cosa che parrebbe certa, come sottolineavi prima, è che fra trent’anni almeno metà della popolazione sarà senza lavoro. Per ovviare a tale situazione è preferibile una consistente riduzione delle ore lavorative o un reddito universale, che prescinda dal lavoro?
G.T.: Senz’altro il lavoro è destinato a diminuire su scala planetaria, anche per effetto dell’aumento della forza lavoro globale. Non solo delle macchine e dell’automazione. Però come rimodulare orari e impegni lavorativi è tutto da scoprire. Èda inventare. Visto che sul lavoro pesa l’anatema secolare del lavoro inteso come sudore e fatica. «Chi non lavora non fa l’amore» cantava cinquant’anni fa Adriano Celentano. Quando oggi si parla di reddito di cittadinanza bisogna appunto considerare che tutte le grandi resistenze rispetto a questo provvedimento, che su scala globale si chiama basic income, si scontrano con l’assoluta convinzione che se non si lavora non si ha diritto a niente.
R.G.: La fiducia assoluta nel progresso è un ricordo. Come disse Paul Valery «non c’è più il futuro di una volta», anzi spesso è un inedito antico, aggiungi, che ammonisce di evitare le sterili contrapposizioni tra apocalittici e integrati, tecnofobi e tecnofili. Occorre un nuovo habitus mentale: un pessimismo allegro che affronti i cambiamenti, senza alcuna paura dell’innovazione, passando da un atteggiamento difensivo a uno attivo-propositivo. Per citare un esempio, il rilancio dell’handmade e dell’artigianato possono contrastare il declino dei posti di lavoro nelle grandi aziende?
G.T.: L’artigianato e in generale il fatto a mano, cioè personalizzato, è sicuramente un’opzione produttiva e lavorativa da considerare come inevitabile, se si svilupperà com’è auspicabile l’economia circolare dell’uso e riuso. Ma più in generale tutto ciò che sarà prodotto personalizzato, dunque competenza personale creativa, non surrogabile da macchine, ha e avrà futuro. Nel mondo globalizzato e uniformato, sempre più in senso automatico e digitalizzato, originalità, singolarità, eccentricità saranno molto ricercate. Anche come reazione, ma soprattutto possibilità di distinguersi. Che era, è e sarà sempre una potente mollacomportamentale e sociale.
R.G.: Tu parli della necessità di un coraggioso reset del sistema. Non è ancora più vero e necessario dopo la pandemia?
G.T.: La pandemia ha già mostrato quanto i balzi nel futuro siano numerosi e significativi. Ricorderò che gli italiani in smart working erano poco meno di 700 mila a gennaio 2020: a marzo 2021 sono diventati più di 8 milioni. In tre mesi, in occasione del primo lockdown, i pagamenti elettronici sono aumentati del 68%, con un incremento percentuale di 11 punti: lo stesso registrato dal 2011 al 2019. Per Amazon, Netflix e Facebook distanziamento sociale e confinamento domestico sono stati un formidabile acceleratore di business. Così come per la grande distribuzione (Coop, Esselunga e Conad) che dal tutti a casa ha ricavato sostanziosi aumenti di fatturato. Ma per l’industria dell’auto e le compagnie aeree, il turismo e i musei, i ristoranti e i bar è stato il tracollo: dal 50 al 90% in meno rispetto al 2019. Hanno fatto boom i servizi di streaming video ma è naufragato il turismo crocieristico, è cresciuto il prezzo delle patate mentre è crollato quello del petrolio.
La pandemia è stata un acceleratore di disastri e ha aggravato tutti i punti di crisi del sistema. Allineandoli e accumulandoli, con effetti assolutamente distruttivi. Come una guerra. Nel giro di un anno, secondo l’Ocse, si è perso nel 2020 quel che si era guadagnato in più di un decennio, dalla crisi del 2008. Nel contempo, per effetto delle ingenti risorse pubbliche richieste per fronteggiare la pandemia, il debito globale rispetto al pil è salito nel 2021 al 355%
R.G.: Una curiosità. Nella scelta del titolo ti sei ispirato a quello del divertente romanzo di Arto Paasilinna L’allegra apocalisse oppure a quale altra suggestione?
G.T.: No, all’Allegra apocalisse di Arto Paasilinna non ho pensato, anche perché confesso che non ne conoscevo l’esistenza. Piuttosto mi sono rifatto al pensiero “allegramente apocalittico” che avevo già evocato nei miei due precedenti saggi, che credo compongano con quest’ultimo una suggestiva trilogia della contemporaneità (eccesso, velocità, ubiquità e smaterializzazione): L’ingorgo. Sopravvivere al troppo (Elèuthera) e Il futuro è adesso. Società mobile e istantocrazia (San Paolo).
R.G: Come aveva ben intuito con lungimiranza straordinaria, Martin Heidegger: «il mondo si trasforma in un completo dominio della tecnica». E aggiungeva: «Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo». Non credi che la questione della tecnica sia ancora oggi il nodo centrale del nostro tempo?
G.T: La questione della tecnica e delle tecnologie, segnatamente dell’importanza che hanno assunto anche nella vita quotidiana, è sicuramente tra le grandi questioni del nostro tempo e dell’immediato futuro. Però invoco la prima legge dell’informazione di Krantzberg: «La tecnologia non è buona, né cattiva e nemmeno neutra». Per dire che come sempre il futuro è nelle nostre mani e che nessun destino è predeterminato. Sta a noi prepararlo, favorirlo. Però oggi ci fanno difetto visioni di futuro realistiche, anche nella proposizione di obiettivi chiari. Per dirla tutta al momento non sappiamo bene dove andare. Però ricordiamoci, come insegna la storia degli ultimi due secoli, che da ogni grande crisi, sia pure a fatica e pagando grandi prezzi anche umani, ne siamo sempre usciti migliori e più progrediti.