“Eva dalle sue rovine”
Come può essere tardi, a diciassette anni? Mi sento vecchia, dice. Siamo praticamente dei bambini, seduti qui sul parapetto. E lei, con quel suo fiore della violenza sulla guancia, si sente vecchia. Si alza e fa qualche passo davanti a me. Sembra aver perso ogni equilibrio. Danza e cade al tempo stesso.
In Eva dalle sue rovine (Utopia, 2021, traduzione di Giuseppe G. Allegri) la scrittrice mauriziana Ananda Devi racconta una danza, quella incauta e sfrenata dell’adolescenza, la stessa che tutti abbiamo ballato una volta nella vita e poi dimenticato. Il palcoscenico è quello di Troumaron, un quartiere povero di Port Louis, capitale dell’isola di Mauritius: è qui che Eva, Sad, Clélio e Savita vivono ed è da qui che vogliono fuggire.
Ognuno di questi ragazzi è narratore della propria fetta di realtà, ma in questo racconto polifonico non trova posto Savita, l’unica a non avere una voce, a non urlare in prima persona contro i suoi diciassette anni. Parla per lei invece Eva, la quale ha grande coscienza di ciò che la circonda, della sua famiglia violenta e della povertà a cui può sopravvivere solo grazie al suo corpo. Infatti, è questa l’unica moneta di scambio che conosce: lasciarsi indagare da sguardi lascivi, permettere a mani prepotenti di afferrarla mentre con la testa è altrove.
Non c’è speranza nel suo mondo, né possibilità di riscatto ma solo il bisogno di sottrarsi al potere maschile e la consapevolezza di non avere davvero gli strumenti per farlo. Persino Sad, diminutivo di Sadiq, che la rispetta e la ascolta non può raggiungerla perché anche lui, rendendola l’oggetto del suo amore e della sua poesia, chiede a Eva qualcosa che lei non può dargli.
Soltanto Savita riesce ad avvicinarla, in nome di un rapporto tra donne che conoscono la paura e possono far fronte comune: è sempre un noi contro loro, donne contro uomini, deboli contro violenti. Allora Sad resta fuori, ai margini di questa alleanza, ammira Eva a distanza e scrive decine di versi sui muri per lasciare una traccia di ciò che sente, perché fuori deve far finta di essere come gli altri e seguire il branco, mentre nella sua stanza può sottrarsi a queste dinamiche, leggere Rimbaud ed essere qualcuno che ama le parole.
La sua è una rappresentazione dell’arte che resiste e che diventa la forma più alta e personale d’espressione: improvvisamente non ci sono macerie troppo ingombranti ma solo pareti da ricoprire con i suoi versi.
Lei risponde: il giorno che dirò ti amo a un uomo, mi suiciderò. È lei a mettere le braccia in croce, ma sono io a rimanere crocifisso dalle sue parole.
Nel romanzo sono frequenti queste immagini forti ed evocative: ogni sentimento, amplificato da uno stile melodrammatico e a tratti pesante, diventa impossibile da ignorare. Inizialmente può sembrare una forzatura, un goffo tentativo di dare profondità alla narrazione, ma bastano poche pagine per comprendere le motivazioni di questa scelta. Il linguaggio utilizzato, le frasi che quasi ricordano quelle di moderni eroi tragici rispecchiano perfettamente la vita di questi adolescenti arrabbiati e disillusi. In qualsiasi altro contesto una forma simile sarebbe sembrata esagerata, ma non qui, non quando Clélio combatte contro l’esigenza di picchiare qualcuno per sfogare la frustrazione nei confronti di una vita che non è come vorrebbe.
Notevole il contrasto tra le parole usate e il degrado in cui i personaggi vivono, ogni cosa viene espressa in termini assoluti come se la fine dovesse arrivare da un momento all’altro proprio a diciassette anni, e credo che questo senso di irreversibilità perenne sia la forza di Eva dalle sue rovine.
Non è semplice raccontare l’adolescenza, anche perché spesso chi ci prova non è più giovane da un po’ e ne ha ricordi troppo sbiaditi e edulcorati per costruirne un ritratto reale. In molti ci hanno provato e continuano a farlo fallendo, restituendo al lettore una versione appiattita e banalizzata di cosa significa vedere il proprio corpo cambiare, ricevere occhiate indesiderate dagli uomini o anche solo prendere coscienza di chi si vuole essere, ma non è questo il caso.
Ananda Devi ha scritto una storia autentica, e proprio perché i suoi personaggi sono reali vivono i drammi di un qualsiasi adolescente, ma c’è qualcosa in più, un valore aggiunto dato dalla loro provenienza e da questo quartiere che li tiene prigionieri. Inoltre, è fondamentale nelle dinamiche narrative della storia l’approccio che gli adulti hanno nei confronti di questi esseri ibridi, non più bambini ma non ancora grandi.
Viene infatti descritta una totale mancanza di comunicazione che si traduce in incapacità di comprendersi: la famiglia non è un luogo di ascolto ma di repressione, la scuola non li aiuta a capire come poter avere una vita diversa. Infatti, Eva riconosce i segnali del desiderio persino nel suo professore, colui che dovrebbe incarnare il rigore e il rispetto, e che invece segue un copione già scritto e si prende ciò che non gli spetta, il corpo di una sua studentessa e anche qualcosa in più.
Gli adulti che abitano queste pagine non rappresentano la sicurezza e la responsabilità dei loro anni ma mostrano ai ragazzi come sarà la vita dopo, sono una finestra sul futuro che li aspetta e che tanto li spaventa. E forse per questa ragione loro continuano a ballare controvoglia, spinti dai sentimenti sbagliati e animati solo dalla consapevolezza di un destino segnato da colpe che non gli appartengono.