Camilla Gazzaniga
pubblicato 3 mesi fa in Recensioni

“L’attesa del Diavolo” di Mary MacLane: un ritratto

“L’attesa del Diavolo” di Mary MacLane: un ritratto

Mary MacLane ha diciannove anni. Ha una certa sensibilità, una mente eclettica, vive nella regione del Montana, ai piedi di una collina arida e fatta di sabbia. Cammina ore e ore per le collinette, i corsi d’acqua artificiali e le crepe di una terra dove non cresce nulla. Nel camminare, la sua mente è una sfilza di immagini, persone e fatti, desideri e sfoghi. Tutto sommato le persone delle sue storie sono poche, lo sfondo generale dello scrivere è una sorta di tristezza, e lei è in attesa di qualcosa che possa cambiare lo stato delle cose. Attende la venuta del Diavolo.

Questi appunti sono riportati da Mary MacLane stessa per cominciare a scrivere la sua storia in forma di diario, datato gennaio-aprile del 1901. Lo chiama I Await the Devil’s Coming, titolo poi cambiato nel 1902 in The Story of Mary MacLane, ma questo comunque non eviterà la censura qualche anno dopo, quando il libro avrà venduto più di centomila copie e il nome di Mary MacLane si sarà infiltrato nella letteratura americana dei suoi anni. La recente traduzione italiana è di Sofia Artuso, che ne cura anche la postfazione. L’attesa del Diavolo è edito da Ago Edizioni, che scova e riporta alla luce testi della narrativa straniera del Novecento ancora non tradotti in italiano.

25 febbraio. Mary MacLane, piccola creatura abbandonata e affranta, che cosa sei tu? Perché non appartieni e non ti mischi alla mandria scalpitante? Perché ti distingui sullo sfondo di un cielo cupo? Perché non riesci a entrare nelle vite e nelle simpatie di giovani creature? C’è stato un tempo in cui davi fondo a ogni fibra di te stessa per farlo, prima di capire che simili cose non faceva al caso tuo, che l’unica simpatia che potevi guadagnarti era quella di Mary MacLane, e le uniche cose che facevano al caso tuo erano quelle che potevi prendere da te − non quelle che ti venivano concesse. […] Oh, è un’attesa estenuante − quella del Diavolo.

In apparenza il testo ha la forma di un diario intimo, è anche una sorta di memoir, e abbozza spunti filosofici; Mary scrive per comprendersi meglio. L’appuntamento con la scrittura sembra essere regolare, accanito, riempie con poche pause tre mesi − dal 13 gennaio al 13 aprile 1901. Non è così. Andando a leggere, questo testo ha soltanto la struttura formale del diario, con la sequenza cronologica delle date. Lo schema narrativo è più complesso: è una storia che comincia e si sviluppa, la stesura del proprio ritratto personale è ragionata. Quasi certamente la scrittura non ha seguito una scansione giornaliera − come è nel journaling − ma è avvenuta in un momento dato. Quando scrive, MacLane si sta rivolgendo a noi, e spera di essere letta, compresa da tanti. Molte delle idee formulate sono già così chiare, lucide nonostante l’età, in un certo senso prepotenti; non c’è misura nel dire le sue doti, ma sono proprio i difetti quelli che MacLane passa maggiormente in rassegna. Per come si racconta è una creatura scardinante e schietta, come del resto la sua scrittura. Lo è, per esempio, nel descrivere per diverse pagine consecutive l’arte del mangiare un’oliva, dove gli indugi alle forme e al gusto del cibo alludono a un godimento pieno e di tipo sensuale. Il boccone amarognolo che permane nella bocca e poi scivola lungo il suo giovane corpo femminile, ripetutamente citato e benedetto in quanto tale. L’espediente narrativo a volte c’è, ma nulla deve essere troppo taciuto.

Questo è vero soprattutto quando MacLane annota le ipocrisie del vivere sociale. Le convenzioni con cui le persone si legano, rimangono insieme con il frutto delle loro unioni, mentre poi nello spazio, minimo e privato, che resta fuori dal sacro vincolo vengono commesse volgarità di ogni genere. Lei chiede ed esercita un altro tipo di amore, quello che è puro proprio perché c’è senza la necessità di essere siglato, riporta i suoi slanci sensuali, mostrando anche caratteristiche che per l’epoca erano considerate prettamente maschili. Sa che in una società maschilista le cose spettano agli uomini proprio perché sono uomini, e sotto a una data del mese di febbraio la ripartizione in date copre in realtà quella per materia scompone il concetto di eroina. Bella, accomodante, che si innamora sistematicamente di un uomo e non può che essere così; lei ne è già distante, ambisce allo scarto dalla regola, al punto debole del carattere, al desiderio sacrilego. Tutto quello che incarna l’immagine del diavolo.

C’è, in tutto questo, anche un segno di intimità: MacLane scrive per trovare qualcuno, perché si sente ed è da sola. Dice di amare una persona, una donna, ma di non esserne all’altezza. C’è una piena corrispondenza tra la sabbia, l’aridità, che tornano così spesso nella narrazione, e la sua dimensione interiore. I grigi di quella terra e del cielo dove lei cammina corrispondono alla sua acuta capacità di autoanalisi, che passa anche attraverso lo scrivere. Questa la mette di fronte all’intensità di tutto ciò che vuole e il non poterlo avere, per i limiti spazio-sociali della sua situazione dove prevaricano il maschile e il bigotto. E di pari passo, le riflessioni sulla sproporzione del linguaggio rispetto al sentimento, incapace di renderlo fino in fondo, e dunque sul sentirsi schiacciata persino dal suo unico mezzo di espressione. Per questo è in attesa di qualcosa di totalmente ossimorico rispetto a ciò che si considera giusto, bello, idoneo, qualcosa di esterno, come solo il diavolo può essere. Ha questo in mente quando lo invoca, lo cita di continuo, spera si innamori di lei. È il cambiamento che vuole per sé stessa, ma anche per tutte le donne che condividono il suo identico sentire ma non possono o non riescono a dirlo.

Una volta andai a casa sua e le portai sei enormi e robusti crisantemi profumati. Li avevo comprati con i tre dollari che avevo rubato. Mi ha fatto piacere comprare dei fiori per la vecchia blasfema. Ha fatto piacere anche a lei − non perché le interessino granché i fiori ma perché ero io a fargliene dono. Sapevo che le avrebbero fatto piacere ma non è per questo che ho deciso di donarglieli. L’ho fatto semplicemente per compiacere me stessa.

All’età di quarantotto anni viene trovata morta con una copia di questo suo libro in mano, dopo averne scritti altri due che non hanno conosciuto lo stesso seguito del primo, caduto però nell’oblio della censura. Sperava, con la pubblicazione di questo ritratto, di essere compresa da qualcuno, che qualcuno toccasse il suo genio, come lei l’ha chiamato, la sua intensa sensibilità. Questa breve storia che conta solo diciannove anni, sospesa nel tempo e nella sua pubblicazione, è di recente tornata in diverse traduzioni con il tentativo di smuovere un poco anche i più indifferenti, come da lei chiesto nell’ultima annotazione del suo diario.