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pubblicato 4 anni fa in Interviste

Utopia – intervista a Gerardo Masuccio

Utopia – intervista a Gerardo Masuccio

Utopia è nata nel gennaio del 2020. Prima di far uscire i libri ha preparato il terreno pubblicando i suoi princìpi sui social: l’identità letteraria, la costruzione di un pubblico fedele invece dell’adeguamento della casa editrice al pubblico, il catalogo come libro unico: princìpi adelphiani, che Utopia ha preso e vestito di eleganti blazer opportunamente adelphiani (la grafica delle copertine, la lettera a uno sconosciuto sulla bandella); princìpi in cui l’editore crede, ma che, ostensi prima che potessero emergere dai libri, sono anche una strategia di comunicazione.

Del primo anno di Utopia ho parlato con Gerardo Masuccio, fondatore e direttore editoriale.


Greta Bertella: Partiamo dall’inizio: la tua sembra essere una vocazione all’editoria. Quando è nata?

Gerardo Masuccio: Da ragazzino ho capito che c’erano delle cose che non implicavano le noie delle persone ma che erano in grado di rispondere, non parlando, come le persone: ed erano i libri. Verso il ginnasio era già chiaro che i libri mi avrebbero coinvolto per sempre. L’idea dell’editoria mi richiedeva delle competenze non soltanto letterarie: il gusto lo si coltiva – se lo si ha – col tempo, con le letture organiche, frequentando chi ne sa di più, ma anche fuori da un ambiente accademico; invece il diritto d’autore e quello industriale, la gestione finanziaria, il marketing – quelle sono cose che bisogna studiare in maniera ordinaria. Così sono andato alla Bocconi, con enorme sacrificio.

Lì hai fondato l’associazione studentesca letteraria Bocconi d’inchiostro, che ha ospitato importanti nomi dell’editoria. È stata una palestra per te?

In Bocconi d’inchiostro ho imparato quello che non conoscevo per niente: l’ufficio stampa: è stato fondamentale. Ed è lì che ho incontrato Beatrice Masini, direttore editoriale Bompiani, che accompagnava Svetlana Aleksievič a una conferenza che avevo organizzato. Quando mi sono laureato le ho mandato subito il mio curriculum, e lei dopo sette giorni mi ha preso. In Bompiani ho iniziato all’ufficio diritti, dove si può imparare più velocemente il mestiere dell’editoria, perché è da lì che passa tutto della casa editrice. Poi è nata CapoVersi, un progetto Bompiani che da un paio d’anni curo insieme a Beatrice e a Paolo Bonora; volevamo una collana di poesia che fosse riconoscibile, di soli autori di qualità, con grandi recuperi e autori provenienti da aree linguistiche trascurate.

Come succede in Utopia.

Sì, come Utopia.

L’essere riconoscibili, l’identità editoriale per voi sono importanti. Hai detto che «Utopia venderà i libri che sceglie e non sceglierà i libri che vendono». Sin dall’inizio avete puntato sulla creazione di un’identità e quindi di un pubblico che si fidi della casa editrice. Vi pare di esserci riusciti?

Gli autori che abbiamo scelto sono piaciuti: ormai ci sono tanti lettori che non attingono sporadicamente al catalogo ma che collezionano i nostri libri, e questo era l’intento iniziale. Utopia ha raggiunto già alcune migliaia di lettori. Non ci aspettavamo che il bacino crescesse così rapidamente, e abbiamo dovuto cambiare promotore all’improvviso: circa due mesi fa siamo passati da Goodfellas a Emme, che è più grande ma ruota sempre intorno a Messaggerie; credo sia il promotore giusto per questa fase di Utopia, che ha triplicato la propria utenza nel giro di pochi mesi. Tra i piccoli editori siamo cresciuti forse più di tutti: facciamo numeri ormai da medio editore – con alcuni libri da grande editore –, e non era scontato. Oggi come oggi se un libro vende 3000 copie per un grande editore è un successo. E noi abbiamo libri che hanno venduto di più.

Tra questi immagino ci sia quello di Carson?

Carson è stata molto letta, ma anche Bontempelli ha avuto due ristampe: c’è un grande amore per i recuperi. Le novità assolute, come Aidt o Devi, faticano di più, ma seguono i classici. Gli autori classici danno autorevolezza a quelli meno noti; invece i meno noti danno freschezza ai classici: è un bilanciamento tra recuperi e scoperte. Il mese scorso abbiamo pubblicato un recupero (Deledda), e adesso un’autrice inedita in Italia (Bracher): cerchiamo un equilibrio tra passato e futuro. Utopia è una casa editrice giovanissima, che non ha un catalogo già formato: deve essere madre di sé stessa. Di qui la scelta di Cela, Bontempelli, Undset, cioè di autori-giganti che la nostra editoria maggiore ha dimenticato.

Del resto Utopia nasce in parte come risposta alle mancanze dell’editoria maggiore. Hai parlato spesso delle colpe dell’editoria generalista, ma hai mosso delle critiche anche a quelli che normalmente sono definiti «grandi editori letterari», come Einaudi. Anche Adelphi, che di certo per te è un modello, ha la sua parte di colpe?

Adelphi è una nobile eccezione. Einaudi, invece, è ormai da tempo una casa editrice generalista. Oggi le grandi case editrici non sono all’altezza di quello che sono state anche solo venti anni fa (per non parlare di sessanta anni fa). I loro cataloghi sopravvivono perché i classici che contengono danno autorevolezza anche a scelte mediocri; classici che però non sono più disponibili: è facile conservare un elenco di titoli prestigiosi senza ristampare i libri. Invece almeno due terzi del catalogo Adelphi circolano perennemente; vuol dire che le scelte di Adelphi sono state oculate, e che c’è una coerenza tale che spinge il lettore a comprare quanto c’è di nuovo – poco – e a conservare quello che c’è di classico. Che il catalogo sia vivo: questo è il principio su cui una casa editrice dovrebbe fondarsi.

Quando e perché è iniziato il declino dell’editoria italiana?

Verso la metà degli anni Ottanta, con la stagione dei grandi best seller, gli autori, grazie ai loro agenti, sono diventati così forti che è capitato che le case editrici pagassero anche senza leggere, e che un autore potesse vedersi retribuito un anticipo di diverse decine o centinaia di milioni di lire senza aver scritto una riga, perché il suo nome era più importante di quello che scriveva. Oggi funziona quasi solo così: l’opera non conta più. È una civiltà dell’immagine anche nella letteratura, che è un’arte veicolata dalla parola.

Utopia, al contrario, punta su un’identità fortemente letteraria. Tra i grandi editori forse l’unico che oggi abbia ancora un’identità editoriale riconoscibile – l’impronta dell’editore – è Adelphi. In Adelphi, però, quest’identità è definita, o lo era, da due fattori: la qualità letteraria e una specifica visione del mondo. L’identità di Utopia ha di certo al centro la ricerca della qualità letteraria; ma la visione del mondo? Qual è, cioè, concretamente l’identità di Utopia?

La totale imparzialità, io credo, è un punto di vista sul mondo. Non filtro i libri attraverso una fede politica o filosofica o religiosa, mi interessa la bellezza. Le visioni sono sempre tipiche di un’epoca; la letteratura invece, quando è letteratura, è sempre attuale, anche a distanza di secoli. Non prenderei mai un saggio di natura politica su realtà contingenti; voglio parlare di arte, e la parola chiave è universalizzazione: se riesci ad andare oltre il perimetro di un corpo, di una vita, se guardando l’altro vedi te stesso – lì c’è letteratura. Dal punto di vista strettamente formale è l’originalità di un’espressione; ma in termini sostanziali potrei pubblicare un autore di estrema destra o un autore di estrema sinistra, un ateo o un fervente religioso, un uomo di grandi valori o un uomo senza valori. A me interessa la letteratura.

La mia domanda, però, non era sulla politica o sulla distinzione tra il valore dell’autore come uomo e quello del suo testo come opera, ma sul tipo di estetica che scegliete. Cercare la bellezza significa cercare la verità; ed è sempre una verità che l’artista vuole affermare.

La verità è un punto di vista. L’elemento essenziale dell’arte è la sopravvivenza alla vita.

Mi arrendo, e torno ostinatamente a Adelphi. Anche la mancanza di steccati tra narrativa e saggistica è un insegnamento che vi viene da Adelphi, che ha costruito una sola grande biblioteca; ma a differenza di Adelphi al momento avete escluso la poesia. Come mai?

Semplicemente perché mi occupo di poesia per Bompiani.

E con la saggistica cosa volete fare, che tipo di saggistica vi interessa pubblicare?

Di tipo letterario. La saggista di punta di Utopia è Anne Carson: la sua è una saggistica che si legge con occhiali narrativi. Anche Avventura dell’uomo di Scanziani, che qualcuno definisce un libro scientifico o parascientifico, per me è invece una speculazione letteraria. Il prossimo libro suo che pubblicheremo sarà un romanzo.

Le vostre pubblicazioni sono al momento essenzialmente di due tipi: recuperi di grandi autori e inediti stranieri cercati in letterature poco battute dall’editoria. Questo vi consente di proporre letteratura di qualità e al tempo stesso avere costi per l’acquisizione dei diritti in media bassi, cosa che può aiutarvi a fare alcune acquisizioni più impegnative, come immagino sia stata quella di Carson. È così?

L’acquisizione di Carson non è stata più dispendiosa di altre, siamo sempre nell’ordine delle migliaia e delle decine di migliaia di euro. Benché piccola, Utopia batte le rotte dei grandi editori, entra in asta con i grandi editori, e deve fare offerte che competano con quelle dei grandi editori. Non si può portare Anne Carson in Italia pensando di non distribuirla, o di non dare un congruo anticipo, o di non affidarla a un traduttore d’eccellenza. Tutti i nostri autori sono di calibro internazionale, e questo richiede un investimento economico importante.

Per fare queste acquisizioni, cercate di bilanciare con una parte di recuperi di autori fuori diritti?

Sì, sono scelte commerciali che di volta in volta valutiamo; benché anche per i recuperi abbiamo delle spese: nel caso di Deledda c’è la collaborazione con Michela Murgia; Bontempelli e Scanziani sono in privativa di Utopia; Undset è fuori diritti da due anni, ma abbiamo dovuto tradurla.

Voi attingete da bacini editoriali di paesi la cui letteratura non ha ampia diffusione e che potrebbero aver interesse a promuoversi, magari fornendo dei contributi per le traduzioni. Ne avete usufruito?

Per adesso solo una volta per Aidt. Poi abbiamo anche autori che nelle loro aree linguistiche sono banditi, quindi di certo non riceveremo aiuto da quei paesi.

Come arrivano in casa editrice gli inediti stranieri di queste aree geografiche poco battute?

C’è una rete di scambi tra editor e editori, scout, professori, giurie di premi, segnalazioni di lettori, agenzie. Aidt l’ho scoperta leggendo il supplemento del «New York Times»; ma ci sono tanti modi attraverso cui entrare in contatto con questi libri: è un’attività onnivora e quasi ossessiva.

Hai detto che cerchi anche inediti italiani.

Una piccola casa editrice fa fatica ad affermare un nuovo autore – quasi non ci riescono più nemmeno le grandi case editrici. Mi sento di investire su un emergente se veramente mi colpisce la sua lingua o se ciò che racconta rappresenta una rottura rispetto alla tradizione narrativa italiana. Non mi è ancora capitato di trovare un testo così: di qui alla fine dell’anno non ci sono esordi italiani.

Forse anche perché prima di puntare su un esordiente preferisci rinforzare ulteriormente il catalogo per essere più forte per proporlo?

Credo di sì. Ma, al di là di questo, se mi fossi imbattuto in un autore davvero straordinario l’avrei pubblicato.

Tra i vostri recuperi c’è quello di Grazia Deledda. Perché avete pensato a lei?

Sono sempre rimasto affascinato dalla storia di questa autrice che, nata nel 1871, deve interrompere gli studi perché alle donne non era consentito studiare; un’autrice che poi è arrivata a vincere il Nobel per la letteratura, cosa che non è capitata a suoi illustri colleghi uomini, molto più inseriti e ammanicati nei salotti letterari, come Fogazzaro e d’Annunzio.

Questi però non sono motivi letterari.

Per me Deledda vale Dostoevskij, perché dell’autore conta solo l’opera. Lei è, come scrisse Lawrence, una scrittrice universale. Ero molto deluso dal fatto che, entrando in libreria, non la trovassi quasi mai; oppure la pubblicavano editori che non riuscivano a portarla veramente nelle librerie, o a fare in modo che ci rimanesse con un progetto ordinato, di qualità.

Perché per Deledda avete pensato alla curatela di Michela Murgia?

Tra gli autori contemporanei è quella che più si è spesa al servizio dell’opera di Deledda: davanti a tanto amore da parte sua ho pensato subito di interpellarla; sentivo il bisogno di un cantami, o diva che rimettesse in contatto un lettore nato negli anni Novanta con un’autrice nata nel 1871 che a scuola è relegata a un paragrafetto.

Perciò è anche per arrivare a un pubblico più ampio che avete pensato a Murgia?

Non è quello il punto di partenza. Credo che la letteratura neosarda abbia in Murgia una vetta molto alta, e che ci sia un’assonanza letteraria tra lei e Deledda.

Quindi l’hai scelta perché hanno lo stesso valore letterario?

Forse più per una vicinanza di immaginario che di valore. Sul valore non devo esprimermi io, lo deve fare un critico o un lettore. Tra le due ci sono delle aree di intersezione amplissime.

Per esempio?

Per esempio storiche e geografiche. E poi hanno una lingua simile, probabilmente perché, come tutte le lingue fortemente connotate dal punto di vista geografico, la loro passa attraverso il calco, e cioè il bilinguismo.

Però non ti sembra che dire di aver scelto Murgia per ragioni storico-geografiche sia un modo per andare contro l’idea di universalizzazione di cui parlavi prima? Senza contare che le ragioni storico-geografiche rientrano in una visione politica, non estetica.

Io penso che la grande letteratura sia sempre provinciale; se la provincia trova l’universale allora diventa quello che deve essere.

Per fare un bilancio dell’anno appena trascorso: c’è anche qualcosa che non è andato come avresti voluto?

È capitato almeno cinque o sei volte che io non sia riuscito ad acquisire un autore. Quando sei un piccolo editore, a volte trovi degli autori internazionali in anticipo rispetto ai grandi editori: loro sono asfissiati dalla burocrazia, mentre il piccolo è più agile. Una volta, però, che il piccolo editore manifesta interesse per un autore, è poi il suo agente a chiamare in causa i grandi editori dormienti molto più ricchi. L’interesse del primo non può competere col portafoglio pesante dei secondi, ed è facile che un grande editore pubblichi ciò che il piccolo ha scoperto.

E cosa succederà nel futuro di Utopia?

La mappa delle aree linguistiche da cui stiamo traducendo sarà presto aggiornata: abbiamo scout e docenti che ci aiutano su Grecia, Albania, Ungheria, Romania, Polonia. Stiamo già lavorando ai prossimi quindici libri. È appena uscito Antonio di Beatriz Bracher, un’autrice di lingua portoghese che all’estero è molto popolare e che ha vinto importanti premi; a settembre abbiamo il romanzo di un grande autore iracheno bandito dal mondo arabo, che vive rifugiato in Europa e che, come dice il «Guardian», è il più grande scrittore arabo contemporaneo. Poi a ottobre c’è di nuovo un saggio, il secondo di Anne Carson. Noi terremo fede ai nostri princìpi, e gli autori che abbiamo già pubblicato torneranno tutti in libreria, perché vogliamo coltivare la loro esperienza letteraria.

Qui finisce la piacevole conversazione che ho avuto con Gerardo Masuccio.

Ha ragione, Masuccio, quando parla delle carenze delle grandi case editrici – troppo impegnate a pubblicare autori che vendono per occuparsi di vera letteratura –, in antitesi alle quali è nata Utopia. Tuttavia si ha l’impressione che questo nuovo (e pur coraggioso) editore pubblichi per ora libri col sigillo di prestigio già apposto da altri prima che da lui stesso. Forse bisognerà aspettare gli esordi italiani per capire l’identità di Utopia; per capire, cioè, se saprà fare letteratura oltre che pubblicarla, e, soprattutto, se avrà la forza di coltivare (parola cara a Masuccio) una letteratura italiana nuova – che è quanto davvero manca, oggi, alla nostra editoria.

di Greta Bertella