Culturificio
pubblicato 3 anni fa in Bacchette corsare

Il secolo e tre donne: “Cigni selvatici” di Jung Chang

Il secolo e tre donne: “Cigni selvatici” di Jung Chang

Una casa da tè nel Sichuan è un posto ineguagliabile. Di solito si trova all’interno di un boschetto di bambù o al riparo dell’ombra di un grande albero. Intorno ai tavoli di legno bassi e squadrati ci sono poltrone di bambù che anche dopo anni di uso emanano un aroma delicato. Per preparare il tè si lasciano cadere nella tazza un pizzico di foglie, versandovi sopra dell’acqua bollente. Poi sulla tazza si mette un coperchio che non chiude del tutto, e il vapore fuoriesce dall’apertura, emanando la fragranza del gelsomino o di altri fiori. Nel Sichuan esistono moltissimi tipi di tè: quello al gelsomino, da solo, conta cinque varietà. […] Forse per via di quell’atmosfera di serenità, o forse perché se si resta seduti a bere il tè non si può fare la Rivoluzione, le sale da tè dovettero chiudere.

Cigni selvatici. Tre figlie della Cina è il primo e più famoso romanzo di Jung Chang, pubblicato in inglese nel 1991 e tradotto in italiano tre anni dopo da Lidia Perria per TEA. Vero e proprio caso letterario, ha fatto molto parlare di sé e dell’autrice, raccogliendo elogi appassionati (ma anche qualche critica). Jung Chang ha venduto più di quindici milioni di copie e va detto che, fra i libri ambientati in Cina, i suoi sono forse i più letti in assoluto.

Diversamente dal solito, non puntiamo le nostre bacchette su una prima presentazione biografica. La vita di Jung Chang (nata a Yibin nel 1952) e della sua famiglia è infatti la storia al centro di Cigni Selvatici.  Si tratta di un lungo racconto che cammina e procede sulle gambe di tre donne: Yu-fang, De-hong e Jung. Copre un ventaglio temporale che va dalla fine del periodo repubblicano al 1978, quando l’autrice si trasferì in Inghilterra.

Tutto inizia con il racconto dell’infanzia della nonna Yu-fang, sottoposta alla fasciatura dei piedi poco prima che questa pratica cadesse in disuso. Visto che non ne abbiamo mai parlato, vediamo brevemente di cosa si tratta: i piedi delle bambine venivano fasciati ripetutamente per anni, in modo costringerli in una posizione innaturale e impedirne la crescita. La fasciatura veniva praticata dalle madri e dalle donne della famiglia ed era estremamente dolorosa, perché implicava la rottura del metatarso e la deformazione definitiva del piede. I piedi piccolissimi erano considerati, oltre che pregio estetico ed elemento erotico, motivo di vanto sociale; se la fasciatura era stata praticata con tempismo e rigore sufficienti, i piedi risultavano più piccoli. Essi costituivano parte della dote e diventavano requisito irrinunciabile per un buon matrimonio. Naturalmente impedivano la libertà di movimento e favorivano la segregazione femminile, richiamando inoltre immagini di debolezza e bisogno di protezione. Alla fine del periodo imperiale sulla fasciatura dei piedi si accese un vivace dibattito e gli intellettuali progressisti la contestarono aspramente, in quanto retaggio feudale e simbolo di arretratezza culturale.

Yu-fang fu poi ceduta come concubina a uno dei signori della guerra. Quando il marito morì, lei fu liberata e si risposò con un medico, il dottor Xia. Sua figlia De-hong frequentò le scuole del Manchukuo, lo stato fantoccio creato ai tempi dell’invasione giapponese (1932-1945) e ufficialmente retto da Pu Yi, l’ultimo imperatore destituito dai repubblicani nel 1911. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale i giapponesi si ritirarono dal territorio cinese, lasciando spazio alla guerra civile tra nazionalisti e comunisti.

I genitori di Jung Chang militavano nelle fila del clandestino partito comunista. La loro relazione e la vita del loro nucleo familiare furono regolate e influenzate sotto ogni aspetto dalla causa rivoluzionaria e dalle sorti del comunismo: De-hong si sottopose a strenui sforzi e sacrifici pur di non tradire il proprio ruolo. La vita personale e familiare era un tutt’uno con quella politica e rivoluzionaria; la dedizione al partito era particolarmente radicata nel carattere rigido e intransigente del padre, e fu motivo di ripetuti scontri. Fin da subito «vi fu una differenza fondamentale fra i miei genitori: la devozione di mio padre al comunismo era assoluta, e pensava di dover usare in privato lo stesso linguaggio che usava in pubblico, persino con la moglie. Mia madre invece era molto più flessibile; il suo impegno era sempre temperato dalla ragione e dal sentimento. Mia madre concedeva spazio anche al privato, mio padre no».

Un clima del genere influenzò profondamente la vita dei figli, che comunque inizialmente ricevettero anche consistenti vantaggi: in particolare, il ruolo di funzionario del padre permise loro di non soffrire la fame durante il Grande balzo in avanti, quando nel paese imperversava la carestia. La narrazione prosegue poi con il racconto dell’adolescenza di Jung Chang durante la Rivoluzione culturale e la sua esperienza come guardia rossa, la persecuzione dei genitori, l’arresto del padre e il suo esaurimento mentale, fino all’ammissione dell’autrice all’università e al conseguimento della borsa di studio che l’ha portata in Inghilterra.

Jung Chang ha continuato a scrivere libri di argomento storico: il suo L’imperatrice Cixi (2013) racconta la storia dell’ex concubina che diventò sovrana reggente e aprì la strada alla modernizzazione del Celeste Impero, poco prima dell’instaurazione della repubblica. Con lo storico Jon Halliday, che è anche suo marito, Jung Chang ha pubblicato Mao: la storia sconosciuta (2005), che ha però sollevato critiche consistenti da parte di numerosi accademici.

Cigni Selvatici insiste particolarmente sui contrasti e i paradossi che caratterizzarono la vita della popolazione cinese nel secolo scorso, mantenendo un piglio spiccatamente romanzesco, capace di riassumere e fare chiarezza su un’ottantina di anni senza mai assumere un tono da monografia storica. Il testo mette particolarmente in luce l’assurdità delle politiche maoiste (ad esempio il divieto di prendersi cura di fiori e piante, considerati vizio borghese) attraverso racconti calati nella quotidianità dell’autrice e dei suoi parenti. La struttura da saga familiare è un po’ alla russa, con l’albero genealogico e la linea del tempo in apertura al testo; pur senza mai staccare gli occhi dalla famiglia di Jung Chang, ci caliamo in un secolo tumultuoso, che procede a ritmo serrato e incalzante. Ne risulta una narrazione avvincente, che permette alle quasi settecento pagine di scorrere via con impressionante velocità.

Altro aspetto a favore di Jung Chang è il punto di vista calato nello sguardo di personaggi femminili. Le esperienze individuali illuminano i vuoti lasciati dalle narrazioni prettamente storiografiche, conducendoci al punto di intersezione tra la Storia (quella con la S maiuscola, del Kuomintang, della Lunga Marcia, di Mao e dei suoi collaboratori) e le storie delle donne, i campi di battaglia dove il corso del tempo rigurgita le proprie secrezioni. Donne che vennero vendute, che marciarono e prestarono servizio militare a costo di perdere i figli che portavano in grembo, che militarono mettendo lo zelo rivoluzionario al primo posto, che si ribellarono, che obbedirono, che si arruolarono tra le guardie rosse picchiando e inveendo con furia disumana, che desideravano in segreto di poter indossare capi colorati o di potersi truccare. Cigni Selvatici permette non solo di osservare come la condizione femminile cambiò radicalmente in Cina nel Novecento, ma anche di empatizzare profondamente con alcune donne reali, al di fuori di ogni astrazione.

Il Fiume d’Argento scorreva vicino al campus, e spesso durante le ultime serate che trascorsi in Cina mi ritrovai a passeggiare lungo le sue rive. La superficie dell’acqua scintillava alla luce della luna e nella foschia della notte estiva. Ripensavo ai miei ventisei anni: avevo sperimentato il privilegio e la denuncia, il coraggio e la paura, e avevo visto la lealtà così come gli abissi della bruttura umana. Fra sofferenza, rovina e morte, avevo conosciuto soprattutto l’amore e l’indistruttibile capacità umana di sopravvivere e perseguire la felicità.

di F. Ceccarelli