Raymond Queneau: parole per una disincantata libertà
C’è della ricchezza e del lavoro / insomma dell’umanità sulla superficie di questa terra / basta trovarla / miseria / mali / non parliamone.
È forse ciò di cui parlava Hegel che Queneau amava di più: l’anima del mondo, l’idea che il mondo avesse un’anima. L’autore degli Esercizi di stile (1947) e del celebre Zazie nel metró (1959) si prende gioco della letteratura: consapevole dei paradossi e dell’alienazione presenti nella vita di un uomo, lo scrittore mette in scena trame e personaggi irreverenti e contradditori.
I concetti ricorrenti di sogno e astrazione dimostrano la sua passione per il contrasto e la discordanza: i protagonisti dei testi di Queneau sono spesso irreali e incompresi, il linguaggio (o «antilinguaggio», come lo definisce Roland Barthes) ambiguo e confuso, il significato dei dialoghi inafferrabile. Il processo di demistificazione avviene non dall’esterno ma dall’interno: per convivere con l’insicurezza, la letteratura deve essere dalla parte della modernità e parlare dell’impossibile.
Lo stile di cui si serve deve essere assurdo e inammissibile: solo così la scrittura può raccontare il vuoto che ci affligge, e al tempo stesso proporre una cura. È un’operazione complessa da cogliere nella sua profondità: questa capacità di celare un messaggio amaro dietro a un sipario comico e provocatorio è davvero la particolarità di Raymond Queneau.
Se il proverbio recita «la pratica rende perfetti», per Queneau è proprio scrivendo che si diventa scrittori: utilizzando un francese simile al parlato quotidiano, l’autore mescola registri che sembrano quasi diverse lingue. È un francese «plurale», come ricorda Zazie dans le métro: linguaggio filosofico e voci di strada danno vita a un universo vivace, autentico e travolgente.
Eppure, dietro a un’apparente spensieratezza e a un’esplosiva casualità degli eventi si celano calcoli, regole, sfide matematiche e linguistiche: durante un’intervista radiofonica rilasciata a Georges Charbonnier, Queneau rivelò infatti che «i numeri e l’aritmetica giocavano nella costruzione di un romanzo lo stesso ruolo delle fondamenta nella costruzione di una casa». L’arithmomanie (l’ossessione per i quesiti matematici) era comune a molti scrittori dell’OuLiPo, un vero e proprio laboratorio letterario fondato nel 1960 da Queneau e François Le Lionnais.
Lo scopo del gruppo era quello di ricercare nuove forme di espressione del linguaggio e di trovare soluzioni originali a partire da una serie di limitazioni autoimposte e regole prestabilite. Ciò era possibile solo spingendosi oltre l’uso tradizionale delle parole: l’arte della scrittura consisteva nel costruire un labirinto letterario dal quale uscire divertendosi.
Tuttavia, pur scegliendo di jouer avec les mots come avevano fatto le avanguardie, l’OuLiPo le critica per il rifiuto totale di regole e convenzioni narrative, dirigendosi piuttosto verso una rivalutazione e una riproposizione originale del passato.
Al centro c’è una visione classica del genio artistico: la creatività non nasce da una riduzione del controllo conscio su di sé (il principio alla base della scrittura automatica dei surrealisti), ma dalla tecnica e dal suo perfezionamento. La disciplina che orienta le scelte degli scrittori dell’OuLiPo si nutre di una concezione quasi artigianale della scrittura e si oppone all’idea di hasard objectif: dopo un iniziale contatto con il movimento di André Breton, Queneau ne prese infatti le distanze, scrivendo in Le Voyage en Grèce che l’equivalenza tra caso, automatismo e libertà è «totalmente sbagliata» e che un’«ispirazione che obbedisce ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù».
La vera ricchezza della poesia scaturisce dalle infinite possibilità offerte dalle restrizioni: la riscrittura de La Cigale et la Fourmie in versi da parte di Queneau ne è un esempio lampante. Se il lettore riconosce il riferimento alla favola di La Fontaine, ciò avviene grazie alla sua perfetta integrazione nella cultura letteraria nazionale: in La Cimaise et la Fraction il fondatore dell’OuLiPo stravolge il testo originale sostituendo ogni parola con la settima in successione nel dizionario. La cicala diviene così una cornice e la formica una frazione: il testo viene posto sotto una luce geometrico-aritmetica ma mantiene al tempo stesso il messaggio iniziale della favola.
Gioco e dramma, derisione e gravità si uniscono perfettamente in Queneau: i suoi «esercizi di stile» sono un invito a incamminarsi per le strade della città usando ogni volta uno sguardo diverso. L’essenza del mondo non è statica, ma in continuo divenire.
Qual è il fine di questa prospettiva dinamica e dell’inesauribile attività di Raymond Queneau? Forse l’autore lo rivela nel suo sonetto Terre Meuble, scritto nel 1958:
Tutto ciò che chiedo è di mettere un po’ di terra nel palmo della mano / solo un po’ di terra in cui potrei seppellirmi e sparire / Guardate come estendo bene questo palmo si direbbe quasi che volessi chiudere la mano / eppure il mio unico scopo e il mio desiderio più caro è quello di sparire.
E ancora, ne L’explication des métaphores, contenuto nella raccolta Les Ziaux (1943), scrive:
«se parlo del tempo è perché non è ancora, se parlo di un dio, è perché è scomparso, se parlo di un uomo, sarà morto presto, se parlo del tempo è perché non c’è già più».
Assenza, scomparsa: la certezza quasi assoluta che tutto sia votato all’abbandono pervade il tessuto di una poetica che solo se letta con superficialità può risultare meramente ironica. Dietro l’humour e l’innocenza esiste un Queneau engagé, animato dalla volontà di trasmettere l’immagine del suo tempo. Gli anni del dopoguerra, caratterizzati dalla disoccupazione e dall’immobilismo sociale, portarono lo scrittore a dipingere, in modo burlesco e anticonformista, lo spettacolo della vita: con disincantata libertà, Queneau si fece specchio della realtà moderna.