All’inizio del desiderio. Su “Mezza nuda” di Marie Gauthier
Una casa al centro di un villaggio con un albero. Un padre con la sigaretta in bocca e una figlia, Gil. Un ragazzo di quattordici anni, Félix, straniero in quel villaggio e in quella casa, apprendista, per lasciarsi alle spalle l’infanzia, di quel padre con la sigaretta in bocca. L’erba da tagliare, i monumenti e i cigli della strada da ripulire, il suo «corpo maldestro di adolescente» da formare. Gil che esce presto la mattina con indosso una camicia allisciata, torna per preparare il pranzo, esce di nuovo senza ricomparire fino a tarda sera, con un’aria molto diversa; Félix che non sa, ma intuisce.
L’estate ha l’odore di erba essiccata e di sudore, l’odore polveroso dell’asfalto che evapora dalla strada. È l’estate che viene narrata in Mezza nuda di Marie Gauthier, premio Goncourt Esordienti 2019, in Italia edito da Clichy nella traduzione di Tommaso Gurrieri.
Mezza nuda narra la nascita del desiderio, il costituirsi di un’identità fatta di eros e di sentimenti, con il rimasuglio di un po’ di infanzia. Narra di corpi che evolvono, per conto proprio oppure a partire dal desiderio stesso. L’educazione sentimentale di Félix non si realizza attraverso dialoghi, parole nette con cui tentare di restituire concettualmente il sentire amoroso; ci sono sguardi, presentimenti, non detti, odori, brusii.
Gil è così sfuggente che la sua unica forma di presenza è sensuale, nel significato proprio del termine: richiama i sensi. Nelle sue apparizioni nebulose ma dense non parla e non chiede mai; il suo passare rintocca sul legno incerto della scala, appena tornata ha ancora addosso l’aria condizionata del negozio; la marmellata che le fa luccicare le labbra, il sapore della sua bocca che Félix conosce mordendo lo stesso pane imburrato. Nella prosa essenziale e intensa di Gauthier sono le sensazioni, soffuse e sinestesiche, a insinuare il desiderio, a rendere la materialità dei corpi ma anche della natura, ugualmente umida, calda, viva, con l’acqua corrente del fiume, il vento che sferza il caldo amaro, la terra da lavorare.
Una prosa tanto materica da instaurare una continuità tra le persone e le cose: ci sono oggetti che ritornano, e basta leggerli tra le pagine per intuire che incidono sui personaggi. La gonna corta, gli orecchini di plastica azzurri, le spazzole e gli unguenti profumati sono Gil; i vestiti madidi della fatica del lavoro sono Félix, insieme alle parole di un testo sgualcito che conserva nelle tasche e che a volte estrae per leggerle a Gil. È un testo sul mare e su una ragazza, sull’orrore della perdita.
Quando Gil è lontano da casa, alcuni oggetti riescono comunque a materializzarla: la biancheria sparsa, la sua caffettiera gialla e quello stesso testo sgualcito. In una scena che rende l’ubiquità di Gil, Félix crea un legame tra quel testo e le istruzioni d’uso della caffettiera; in apparenza è una scena molto semplice: Félix interpreta le istruzioni in una lingua straniera, osserva il gorgoglio dell’acqua pensando a quanto possa piacere anche a Gil. Ma è molto più di questo. Le parole dei fogli diventano gesti, conducono alle cose; le parole decifrate gli insegnano la cura con cui si può far funzionare qualcosa, l’oggetto che per Félix racchiude la persona che non c’è. Allo stesso modo, quel testo che porta sempre con sé gli dice qualcosa di Gil, dell’assenza di chi non può tornare. Gil è le sue cose; Félix le parole.
In cucina, Félix aspettava che Gil tornasse. In sua assenza, aveva imparato il curioso rapporto tra le cose e le parole, la loro efficacia e la loro violenza. D’improvviso rileggeva il breve paragrafo. Forse era venuto lì per quello, aspettare una ragazza, avere paura che non tornasse e aprirsi al potere delle parole.
L’educazione amorosa di Félix si realizza attraverso presentimenti, tra le mura domestiche segue le traiettorie di Gil, torna alle cose per cercare di capire: la biancheria, le riviste di Gil che lo agitano per la loro nudità ostentata, e si chiede se anche lei si riduca a quello nel concedersi agli uomini.
È come se mancasse sempre un qualcosa per risolvere l’enigma della vita nascosta di Gil, celato anche nel suo stesso nome, diminutivo di altri tre – Gilberte Anastase Luce –, antichi ed eleganti. Gil non viene più chiamata con il suo nome per esteso, e Félix intuisce un’elisione anche in lei: la ragazza bella e poco più grande di lui esce e diventa un’estranea.
Lei saliva le scale in silenzio. Félix sentiva solo l’agitazione del cane. Gli era impossibile indovinare qualsiasi cosa. Non vedeva né il suo vestito né la sua borsa. Si chiedeva da dove arrivasse, da un ballo o da una camera. Se avesse bevuto. Contro quale muro si fosse appoggiata, in quale macchina fosse salita.
Per Gil invece era stato diverso; aveva voluto sapere in fretta, aveva osservato il modo in cui si comportano gli animali. Era rimasta a guardare, aveva sofferto. Era pronta a vivere questa esperienza senza metafisica, soltanto attraverso l’incontro dei corpi, in modo ferino e meccanico. Nessuno le spiegherà o le darà di più. Ancora non conosce il desiderio, per lei è brama di sapere, di vedere come si fa.
Gauthier riesce così a descrivere l’erotismo di Gil senza tradirne l’innocenza, perché lei è un’amante, ma senza farsi possedere fino in fondo, senza istigare tradimenti o suscitare la gelosia delle altre donne. Per lei l’amore è ancora un gioco, che le piace per scoprire sé stessa, per sentirsi tutta intera, e quando il gioco la stufa, prende i suoi abiti e scappa via. Giocare è tanto facile perché Gil sa che la sera, se vuole, può tornare a dormire accanto alla scrivania con i suoi quaderni. Gauthier, dunque, rende con delicatezza l’erotismo di Gil, un erotismo manifesto e a tratti incauto, e lo fa nella caratterizzazione del personaggio ma anche nello stile: gli incontri amorosi, per esempio, vengono raccontati attraverso il calore che si alza dai corpi e dalla vegetazione intorno, e con l’umidità che stagna sul ciglio del fiume.
Le parole si fanno tattili, anche nel rendere i corpi di Gil e di Félix, evocandone le forme e le consistenze così come i tratti acerbi, ancora per poco.
Lei voleva che il suo corpo ne fosse segnato in qualche modo. Che diventasse il segno di un passaggio. Che vivesse in lei sotto la gonna, sotto la camicetta chiara. Non poteva farci niente. Non offriva nessuna resistenza, ci si perdeva dentro.
In uno dei rari scambi con Félix, Gil si dice divorata, affaticata dagli uomini, e lui si chiede se in realtà non sia lei a sperare che ciò avvenga nei momenti in cui nessun uomo, nessuna auto si ferma nelle sue interminabili attese al fiume, il luogo in cui si concede più spesso. Il richiamo del fiume, che Gil sente come occasione di evadere dal suo universo ancora infantile, risuona nelle pagine come una sentenza; è già tutto in quel foglio che Félix custodisce e le legge, la storia sulla ragazza, il mare, la perdita.
È un dettaglio, piccolo ma essenziale, con cui Gauthier fissa nel suo scritto il valore delle parole, che possono avvicinare persone inizialmente lontanissime, e dare un nome a qualcosa che fino a quel momento non si sapeva come chiamare. Gil, infatti, torna spesso con la mente a quel testo finché, a estate finita, scopre una sensazione piena e nuova oltre alle violenze subite e mai intese come tali, oltre ai corpi che si scontrano con il suo. Avviene quando il senso del tragico si abbatte ormai chiaro sulla narrazione, e a Félix rimarranno soltanto le parole per ricordare quell’estate che ha consumato con fare violento una parte di lui: l’infanzia.