“Io, lui e Muhammad Ali” di Randa Jarrar
donne che vogliono la luna
Resta un mistero perché il genere racconto, così versatile e sostenibile, riscuota (almeno tra i lettori italiani) un successo tanto tiepido. Eppure i racconti sono la forma narrativa ideale in questo nostro presente frantumato, compromesso, ipervelocizzato, e contraddistinto da un’incapacità sempre più evidente di mantenere la concentrazione.
“Frantumato” e “compromesso” sono per esempio due aggettivi che stanno molto bene in una raccolta come Io, lui e Muhammad Ali di Randa Jarrar, proposto qualche mese fa da un editore che di forme brevi se ne intende, Racconti Edizioni, con l’ottima traduzione di Giorgia Sallusti.
“Frantumato” e “compromesso”, proprio così, ma nel loro senso migliore, perché è bene ricordare che molti degli aggettivi che usiamo non hanno sempre e solo un’accezione negativa, come in questi racconti non esistono sempre né un destino né un senso univoco, e laddove sembra intervenire la sfortuna – una morte, un abbandono, un tradimento, una solitudine – si nasconde invece una risorsa, una rinascita, un motivo di lotta e di ribellione. Come il fiore di cappero che spunta dal muro, così prezioso e stupefacente anche in condizioni di asperità, queste storie minime ci offrono le loro gemme con generosità, rivelandosi incantevoli, preziose, e dotate della stessa potenza, della stessa ostinazione e della stessa complessità dei romanzi lunghi.
Ne è un esempio il racconto che dà il titolo all’antologia, in cui una donna deve occuparsi delle ceneri del padre e intraprende un viaggio da Brooklyn al Cairo, che la condurrà a nuove incredibili rivelazioni non solo sulla figura paterna, ma anche, inaspettatamente, sulla vita di sua madre. E proprio la rivelazione è una tra le caratteristiche ricorrenti dell’immaginario di Jarrar, che sceglie, quasi nella totalità dei casi, di cedere la parola e dare potere d’espressione a una moltitudine di voci femminili. Donne quasi sempre giovani o «fresche di deflorazione», che abbracciano i costumi, cercano a tutti i costi di liberarsene, o che più spesso si pongono in posizione ambivalente tra tradizione e progresso, tra l’orgoglio dell’appartenenza e l’insofferenza nei confronti di una società che tende a svalutarle o a non comprenderle davvero; donne che soffrono il fatto di essere quasi sempre definite da qualcun altro, osservate e giudicate da quell’istanza spersonalizzata e spersonalizzante che l’autrice chiama «la Gente». E proprio in quanto donne, sono loro le prime a cedere al vizio e a correre il pericolo di giudicarsi con estrema severità, di abitare il conflitto spinte tanto dal bisogno di liberarsi da una condizione di subordinazione, quanto dall’incessante necessità di trovare un compromesso, un dialogo con le proprie origini.
Jarrar è il megafono ideale che offre loro la possibilità di autodeterminarsi, di fare un passo avanti sul palcoscenico portando in dono le vite spezzate, caotiche, ricche di amori sbagliati, di scelte incerte, di famiglie felicemente a pezzi, di decisioni critiche e rivoluzioni intime. Quelle di Jarrar sono donne alle prese con amori omosessuali troppo audaci e assurdi per poter essere esplicitati, perse in un girotondo di matrimoni combinati, morti, fughe, incidenti automobilistici, scomparse e ritorni. E che in comune sembrano avere una sorta di angoscia della dimenticanza, un timore di essere cancellate dal tempo e dalla storia, o ancor di più da una società che, a prescindere dal proprio progressismo, pecca costantemente di saccenteria nei loro confronti, costringendole spesso a un ruolo marginale, più scontato di quello che loro desiderano, e che pretendono.
In Io, lui e Muhammad Ali, Jarrar è la cassa di risonanza per quella visibilità che è ancora necessaria, che traduce in parola l’istinto, la volontà di non retrocedere, di non sbiadire, di non stare zitte: attraverso la sua parola, così fresca e puntuale, oltre che immaginifica, queste donne rivendicano il diritto a una vita propria, alla scelta, al sesso, perfino alla possibilità di comportarsi “male”, perché quel male ha un potere determinante, e utile. «Tutto quello che ho voluto», dice una di loro, «è sentirmi integra»; integre, quindi salde, in un mondo – di nuovo – frammentato e compromesso, non solo nel suo tessuto relazionale – nell’abbandono, in un rapporto interrotto o complicato con parenti o amici; ma anche nella materia: per una guerra, per una necessità spesso coatta di andarsene, quando non per una scelta radicale di cambiare scenario e pensare a un destino alternativo.
Il libro si apre col racconto di una ballerina che vuole la luna (e a differenza di molte principesse, fa di tutto per ottenerla davvero), in un contesto in cui ottenere un visto per espatriare sembra un’impresa ben più ardua che pescare il satellite con un retino; servono nove orsi in cerchio sulle punte per scampare a un matrimonio combinato, e forse anche per sognare un finale diverso e sfuggire al destino di parrucchiera; servono grazia e testardaggine per lanciare il cuore oltre l’ostacolo e tenere a mente che è lecito desiderare, sperimentare, immaginare qualsiasi cosa – anche trasformarsi in falco e librarsi in volo sopra i mari di mezzo mondo. E se essere donna significa non essere mai «considerata insopportabilmente bella» da nessuno, la volontà di questo libro è anche insegnare e concedere indulgenza, è nobilitare vite che altrimenti rischierebbero di essere confuse nel caos, e porre l’accento sulla possibilità di dire: «Io voglio la luna», e di ripetere al mondo: «Io esisto».
di Gaia Tarini