“A pranzo con Orson”
il regista, l’amico, l’uomo
Il cinema non mi interessa granché. Continuo a ripeterlo e nessuno mi crede. Ma è vero, non mi interessa! Mi interessa farlo, invece. Vedi, è una cosa terribilmente arrogante da dire, ma non mi interessano gli altri registi – o il mezzo in sé. Per me è il mezzo artistico meno interessante di tutti. A parte il balletto. A me piace solo fare film. Questa è la verità! (Orson Welles).
Il 6 maggio 1915 nasceva Orson Welles, regista di una delle pellicole più significative dell’intera storia del cinema: Quarto potere (Citizen Kane, 1941). A partire dalla fine degli anni Settanta, Orson Welles e Henry Jaglom pranzarono spesso insieme al Ma Maison di Hollywood, uno dei ristoranti preferiti da Welles e ambiente molto alla moda in quel periodo. A pranzo con Orson (Adelphi, 2015, di recente ristampa), curato da Peter Biskind e tradotto da Mariagrazia Gini, mette insieme le loro conversazioni, avvenute tra il 1983 e il 1985 – gli ultimi tre anni di vita di Welles – e giunte a noi grazie a un registratore che Jaglom teneva nascosto nella sua borsa.
Prima di entrare nel merito della conversazione e di questo volume bisogna fare una breve premessa. Non è mai facile approcciarsi a letture come queste, prima di tutto per il calibro del regista, Orson Welles, una sorta di feticcio cinematografico da maneggiare con cura. Un’altra complessità è data dalle informazioni che si trovano all’interno del volume, per il modo in cui queste informazioni sono state fatte trapelare da Henry Jaglom, ovvero tramite un registratore nascosto nella borsa, di cui però Welles era a conoscenza – secondo Jaglom.
Ecco, potrebbe sembrare una banalità ma non lo è affatto: sappiamo benissimo quanto può essere facile per chi fa le domande sapere di essere registrato – studiando i toni da utilizzare e gli argomenti su cui puntare – e quanto può essere difficile per chi è intervistato non saperlo, soprattutto al tavolo di un ristorante. Detto ciò, bisogna considerare questo aspetto e leggere i giudizi di Orson Welles in una chiave diversa da quella che si potrebbe immaginare, affidandosi a Peter Biskind, curatore del volume:
Welles sapeva che Jaglom aveva registrato per trent’anni il padre che narrava i suoi ricordi, così gli chiese di registrare anche le loro conversazioni, a patto di tenere il registratore nella borsa, nascosto ai suoi occhi. Jaglom iniziò a registrare nel 1983 e continuò fino alla morte di Welles, il 10 ottobre 1985, quando ebbe un infarto nel cuore della notte. Morì con la macchina da scrivere in grembo.
Se la figura di Orson Welles è conosciuta, quella di Henry Jaglom lo è certamente meno. Nato a New York nel 1938, si forma all’Actors Studio e alla metà degli anni Sessanta fa parte di quel folto gruppo che si sposta da New York a Los Angeles, perché l’amico Peter Bogdanovich gli aveva promesso il ruolo da protagonista nel suo primo film, Bersagli (1968). La sua carriera da attore non ha successo, tanto che passa presto alla regia di Un posto tranquillo (1971), con Jack Nicholson, dove inserisce nel cast anche Orson Welles.
Alcuni anni dopo, nel 1978, Jaglom incontra Orson Welles, a pranzo con Warren Beatty, al ristorante Ma Maison – rinomato locale di Patrick Terrail a West Hollywood, in Melrose Avenue, nei pressi di King’s Road – da lì a poco tempo i due diventano amici e, per certi versi, colleghi. Una strana coppia, con un divario anagrafico importante, una personalità diversa e diverse origini.
Orson Welles, invece, inizia la sua carriera ottenendo una piccola parte in una produzione del Gate Theatre di Dublino. Quando torna negli Stati Uniti diventa una figura di spicco del panorama teatrale newyorkese – viene soprannominato “ragazzo prodigio” – e il 9 maggio del 1938, all’età di ventitré anni, il «Time» lo mette in copertina. Una delle uscite più conosciute nell’immaginario popolare però è stata in radio: il 30 ottobre del 1938, nell’episodio radiofonico di Halloween, simula in diretta l’arrivo di un’invasione aliena, scatenando così il panico in migliaia di ascoltatori.
Solamente due anni dopo, il direttore della RKO gli fa firmare un contratto stellare: due pellicole con final cut. Il primo maggio 1941 esce nelle sale statunitensi Quarto potere, scritto con Herman J. Mankiewicz.
Il montaggio ha rappresentato un tempo la materia stessa del cinema, il tessuto della sceneggiatura; in Citizen Kane un concatenamento di sovraimpressioni si oppone alla continuità di una scena ripresa in un’unica inquadratura, costituendo un’altra modalità, esplicitamente astratta, del racconto. Il montaggio accelerato barava col tempo e con lo spazio; quello di Welles non cerca di ingannarci, al contrario, si pone per un contrasto come un condensato temporale, l’equivalente, per esempio, dell’imperfetto francese o del frequentativo inglese. Così il “montaggio veloce” e il “montaggio delle attrazioni”, le sovrimpressioni che il cinema parlato non impiegava più da dieci anni ritrovano un’utilizzazione possibile in rapporto al realismo temporale di un cinema senza montaggio (André Bazin, Che cosa è il cinema? Il film come opera d’arte e come mito nella riflessione di un maestro della critica, Garzanti, 2012).
La narrazione verte sul magnate Charles Foster Kane – interpretato dallo stesso Orson Welles –appena deceduto, e su un cinegiornale che ne ricostruisce la carriera professionale e la vita privata. Da quel momento parte un’inchiesta giornalistica per scoprire il significato della parola ‘Rosebud’, l’ultima pronunciata da Kane prima di morire. Un intricato percorso investigativo fatto di interviste e flashback per svelare il segreto che si nasconde dietro questa misteriosa parola, l’unica confidenza che il protagonista sembra essere riuscito a tenere lontano dai mass media.
In Citizen Kane, a oggi considerato dall’American Film Instituite il miglior film americano di tutti i tempi, la figura del protagonista Kane è ispirata a William Randolph Hearst. Si tratta, in breve, di una lucida panoramica su cinquant’anni di storia americana, in cui la ricchezza semantica, la caratterizzazione simbolica dei personaggi e la complessità formale dello stile narrativo – attraverso la profondità di campo, le angolazioni dal basso e il piano-sequenza – rompono le barriere del découpage classico, aprendo le porte al cinema moderno e soprattutto al dibattito sulla modernità.
Dopo questo capolavoro indiscusso, saranno solo undici i film diretti da Orson Wells, tra cui L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons, 1942), La signora di Shanghai (The Lady from Shanghai, 1947), L’infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958) e F come falso (F for Fake, 1973), ma nessuna di queste arrivò allo spessore artistico e cinematografico raggiunto nell’opera d’esordio.
Tornando al tavolo del Ma Maison, e tra le pagine del volume, bisogna immaginarsi Orson Welles alla fine della sua altalenante carriera, tra progetti non conclusi e problematiche legate alla sua forte personalità, motivo delle mancate produzioni. Un gigante, in modo metaforico e letterale, consapevole della sua grandezza ma colpito dalla freccia della fragilità fisica e dalla presa di coscienza che ormai la realtà sembra un grande e vago ricordo.
Cameriere «Oggi pranziamo, Mr. Welles? Abbiamo delle capesante, se desidera. Al naturale, oppure preparate con una petite légume».
Orson Welles «No: meglio al naturale. Ma vediamo cos’altro c’è».
C «Nel caso, la avverto che abbiamo terminato l’insalata di granchio».
OW «L’insalata di granchio? Era meglio non dirlo. Almeno avrei saputo che cosa non potevo ordinare!»
C «Gradirebbe un’insalata con pompelmo e arancia?»
OW «No, che orrore. Un connubio insensato, pessimo: tipicamente tedesco. Facciamo insalata di pollo, ma senza capperi».
Henry Jaglom «L’hanno rovinata, con quel condimento alla senape. È diventata tutta un’altra cosa».
OW «È cambiato lo chef».
Questa conversazione, dove entra in gioco anche il cameriere, così conviviale e all’apparenza priva di peso ideologico, è solo una delle tante riportate da Peter Biskind. Ma è un ottimo esempio per comprendere in primo luogo il contesto delle conversazioni tra Welles e Jaglom e poi lo spaziare degli argomenti, alti e bassi, comprese le interruzioni di amici e conoscenti, di uno o dell’altro, come Richard Burton, Swifty Lazar o Jack Lemmon. Brevi entrate e uscite di scena che colorano questi dialoghi e restituiscono una piacevole immedesimazione. Il lettore è ospite del tavolo di Welles: sente cosa dice, vede cosa mangia e vive in prima persona il cinema hollywoodiano.
Pettegolezzi, diatribe, sfregi e aneddoti esilaranti sembrano essere sempre presenti nel menù del giorno. I fraintendimenti con Katharine Hepburn, l’antipatia per Spencer Tracy e Irving Thalberg o l’amicizia con John Ford vengono amplificati dalla sfrontatezza di Welles:
Alla faccia! Stavo girando Quarto potere. L’avevo vicino al trucco; si preparava per Febbre di vivere. E con dovizia di parolacce raccontava di come la sbatteva Howard Hughes. Ai tempi nessuno parlava così, tranne Carole Lombard: per lei era naturale, non sapeva esprimersi in nessun altro modo. Invece Katie [Hepburn], con quel suo accento da collegiale di buona famiglia, era come se avesse scelto di parlare così. Anche Grace Kelly ci dava dentro in camerino, quando nessuno guardava… ma poi non lo andava a dire. Katie era diversa. Era una ragazza libera. Quasi come quelle di adesso.
O anche su Woody Allen:
Non sopporto nemmeno di parlarci. Ha la sindrome di Chaplin. Quella combinazione unica di arroganza e insicurezza che mi dà l’orticaria.
Tali giudizi sembrano far parte della figura mitologica che Orson Welles con il tempo aveva deciso di creare e in queste registrazioni diventano una lama affilata. A volte, anche esageratamente, sfociano in commenti di cattivo gusto con parole al veleno contro gli irlandesi, che portano anche alla simpatia per John Wayne: «Che gran persona, l’attore più educato che abbia mai conosciuto a Hollywood».
Le pagine pullulano di richiami alla prima opera di Welles dietro la macchina da presa, compresi i riferimenti allo snobismo di Jean-Paul Sartre verso la sua opera, ma anche a La Signora di Shanghai, dove elogia la recitazione di Rita Hayworth – a quel tempo sua moglie – oppure alle capacità registiche di Howard Hawks («Hawks è il numero uno e tutti gli altri hanno mangiato le sue briciole») e all’interpretazione in Il terzo uomo (The Third Man, 1949) di Carol Reed.
Eppure, in tutta questa baraonda di parole che sembrano volare al vento e atterrare su carta, il regista ci offre un’altalena di emozioni, un malinconico rancore verso quell’industria cinematografica che è stata il suo trampolino di lancio e contemporaneamente quella che l’ha fatto sprofondare:
Noi registi siamo dei poveracci, con poco bagaglio. Arriviamo con una borsa per la notte e ce ne andiamo a mani vuote. In quei vecchi elenchi dei più grandi film ci sono nomi totalmente scomparsi. Ora che la mia carriera è solo un ricordo sono ancora qui, come una specie di monumento, ma arriverà il momento in cui scomparirà del tutto, come se mi si aprisse una botola sotto i piedi. Preferirei una conclusione alla Verdi.
A pranzo con Orson è questo. Uno spazio in cui risiedono i ricordi, le riflessioni sull’universo cinematografico e sulle figure che hanno accompagnato la sua lunga carriera di attore e di regista, alternate a commenti gastronomici e tematiche legate alla politica internazionale. Parabole spesso difficili da accettare e raccontate sempre con la schiettezza, spinosa e irriverente, di Orson Welles. Ma quello che ha lasciato questo autore, più che nelle parole, sta nelle immagini.