«Make Italy great again!»
considerazioni sul Mussolini di Joe Wright
Sulla miniserie televisiva di Joe Wright M – Il figlio del secolo, tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati, è già stato detto e scritto di tutto. Se ne sono occupati, tra gli entusiasti, la Repubblica, il Corriere della Sera, Rolling Stone Italia e Wired Italia, mentre altri, come Il Nord Est e Libero, hanno mostrato meno enfasi e quasi un piglio di delusione. L’ampio dibattito originatosi sin dalla proiezione promozionale a reti unificate non si è sviluppato solo a colpi di articoli e recensioni tra giornalisti, critici, storici o cultori del settore; ha invaso le piazze social, la homepage e la sezione commenti del profilo di ogni utente, e tutti hanno voluto dire la propria. Così, la serie è immediatamente diventata un fenomeno virale, che non si esaurisce in quella che viene chiamata «bolla d’attenzione» perché, dopo l’uscita di nuovi episodi, sistematicamente torna a essere in cima all’agenda-setting dei social media.
Questo, dal mio punto di vista, ci suggerisce due cose: la prima, forse scontata, riguarda l’effetto bandwagon, o quello che in psicologia sociale viene definito «effetto gregge», per cui gli individui spesso sono portati a seguire le azioni e le affermazioni della maggioranza, senza essere realmente interessati o consapevoli dell’oggetto del discorso; la seconda astrazione parte dal presupposto che gli utenti vengano realmente toccati dal prodotto culturale in questione al punto da essere spinti alla ricerca di discussione e di confronto per facilitare la sua elaborazione. E non tanto per ciò di cui la serie parla ma per come ne parla, sono portata a credere che il suo successo sia dovuto più a questa sorta di urto interno che si innesca nel pubblico che a quello che, tutto sommato, potremmo considerare un semplicistico effetto domino.
Sì, perché ciò che secondo me sorprende di più non è la portata della sua diffusione (i primi due episodi della serie hanno ottenuto un ascolto medio di oltre un milione di persone), quanto la polarizzazione che ha generato. Non è mia intenzione sviscerare nella sua complessità la questione, anche perché, come ho detto, altri lo hanno già fatto egregiamente; quello che invece vorrei fare è porre l’attenzione su un unico episodio, a mio avviso emblematico di quanto invece M dovrebbe metterci tutti d’accordo.
Ad un certo punto della quarta puntata, il Mussolini di Marinelli si avvicina quasi minacciosamente alla telecamera, guarda negli occhi lo spettatore e pronuncia: «Make Italy great again!». Ecco che una buona parte del pubblico storce il naso, fa un passo indietro, prende le distanze, si indigna: un riferimento inopportuno, una scena anacronistica, hanno calcato troppo la mano, un attacco gratuito, la battuta più cringe che si potesse scrivere, che bisogno c’era di rovinare tutto? Per rispondere, dobbiamo calare lo slogan nel monologo di cui fa parte:
Perché quelli come me non li capite, ci vedete come pagliacci, bugiardi, buffoni, scandalosi. Può darsi, può darsi… Ma è irrilevante! Noi siamo il nuovo, ogni epoca ne ha uno, uno che da solo pensa che i suoi sogni possano realizzarsi. Trentanove anni, zingaro della politica, da sedici mesi in Parlamento, figlio di un fabbro. Ed ora il Re mi attende a Roma per nominarmi primo ministro, il più giovane primo ministro al mondo. Make Italy great again!
Il riferimento è lampante. La scelta di creare un parallelismo tra Mussolini e Trump attraverso la deformazione di uno slogan politico, che a livello superficiale appare senza dubbio provocatoria e azzardata, nasconde però un significato preciso e mirato: puntare i riflettori sul carattere universale e atemporale del populismo. Il monologo di Mussolini, infatti, è tutto incentrato sulla cialtroneria e sulla sfacciataggine del personaggio che si autocompiace di essere arrivato dov’è, a dispetto dei mezzi utilizzati e del percorso intrapreso, senza che nessuno se ne rendesse conto perché nessuno lo aveva preso sul serio. Come può non richiamarci alla mente alcune figure politiche odierne? Figure che all’inizio delle loro carriere politiche venivano sì, considerate la novità, ma anche giudicate inappropriate a ricoprire incarichi istituzionali per via del background professionale, di posizioni apertamente populiste, cospirazioniste e discriminatorie, o semplicemente di atteggiamenti pubblici e privati eticamente e moralmente inopportuni e che, nonostante questo, sono riuscite ad arrivare ai vertici della politica contemporanea.
Le opere d’arte, che si tratti di letteratura, cinema o televisione, si definiscono tali non solo per la qualità tecnica o narrativa con la quale vengono prodotte, ma soprattutto per la loro capacità di interrogare il presente e stimolare nel fruitore curiosità e senso critico, per fornirgli strumenti interpretativi utilizzabili anche al di fuori della finzione narrativa o artistica. La serie M – Il figlio del secolo, così come il romanzo da cui è tratta, appartiene a questa categoria, perché non si limita a raccontare una storia del passato, ma usa il passato come lente per mettere a fuoco le dinamiche che plasmano il nostro tempo. Il nazionalismo, la propaganda, l’uso dei nemici comuni, la semplificazione estrema del messaggio a scapito dell’ideologia, sono tutti elementi ampiamente riconosciuti come caratterizzanti del regime fascista, ma talvolta rintracciabili a fatica nelle politiche attuali da un elettorato passivo.
Lo slogan trumpiano «Make Italy great again», apparentemente anacronistico, si inserisce perfettamente in questo contesto: è un artificio volutamente provocatorio che spinge lo spettatore a riflettere su quanto certi schemi politici, certe retoriche persuasive e promesse di grandezza collettiva siano ciclici e universali, ma soprattutto pericolosi perché spesso sottovalutati, minimizzati, circoscritti. Il fatto che la battuta abbia infastidito buona parte degli spettatori ci pone degli interrogativi sul tipo di rapporto che intratteniamo con una rappresentazione diretta e disturbante di certi fenomeni politici, ma anche sulle eventuali motivazioni alla base di un atteggiamento di consolazione nella separazione categorica tra quello che è stato e quello che è. Senza dubbio, però, tutto questo ci dimostra che ogni storia, anche quella passata, scopre dei meccanismi ancora vivi, universali, siano essi emotivi, sociali o politici. Più che una provocazione gratuita, dunque, la scelta di Joe Wright di mettere in bocca a Mussolini lo slogan trumpiano è una chiamata a interrogarci sulle radici del consenso e sul nostro ruolo di cittadini in un mondo che troppo spesso tende a ripetere la storia, mascherandola da novità.
di Ornella Tomasco