Alma mater: la maternità e la poesia decadente
Quello della maternità è un tema che assume particolare importanza in epoca decadente, soprattutto per quanto concerne la letteratura. Se in precedenza la donna era confinata alla funzione riproduttiva e subordinata alla perpetuazione della specie, ora, con l’espansione dei movimenti femministi, essa suscita inquietudine e, per così dire, si sdoppia. Da un lato è nutrice e angelo della vita, dall’altro è donna, nel senso di femmina, con tutto ciò che questo comporta. Senza dubbio il passaggio tra Ottocento e Novecento è influenzato, in questo ambito, dalla riflessione di Freud sulle relazioni familiari e, in particolare, sul complesso di Edipo. Il rapporto madre-figlio cessa di essere
costretto in uno di tipo ideale ed è calato, invece, nel contesto di un’ inquietudine psicologica che sovrabbonda di contraddizioni. Il primo esempio è “preghiera alla madre”, Saba, Canzoniere 1986. Riporto i versi 1-6:
“Madre che ho fatto soffrire
(cantava un merlo alla finestra, il giorno
abbassava, sì acuta era la pena
che morte a entrambi io m’invocavo) madre
ieri in tomba obliata,
oggi rinata; presenza”
Tra madre, defunta, e figlio intercorre un rapporto di straziante dolore “sì acuta era la pena”, al punto che il poeta desidera la morte anche per se stesso. Eppure squarcia il velo di un ricordo doloroso il piacere di riscoprire il rapporto – la madre è rinata, è presenza- scevro dalle tensioni, grazie alla mano terapeutica della psicanalisi; esso tuttavia dura soltanto un istante perché diviene pressante il desiderio di ricongiungersi con la madre, il quale si configura, necessariamente, come una rinuncia alla vita poiché essa è, come già detto, defunta. Eppure tradizionalmente, e questa è la prospettiva che accoglie il Pascoli, non è il figlio a considerare quasi un male accettabile la morte bensì la madre, che sa mettere a tacere persino le necessità primarie per garantire la salvezza della progenie. Ed in effetti, questo si riscontra in più d’un
componimento: De Amicis la descrive come malata e stanca ma anche capace di “nascondere il suo dolor sotto un sorriso”. Allo stesso modo Pascoli in Rosicchiolo – quarta edizione di Myricae, 1897 – racconta di una madre che muore di fame nel sonno ma lascia un tozzo di pane (rosicchiolo) per il figlio. Versi 9-12:
” Ma ella guardava lunghe ore,
guardava il suo bimbo, e morì,
di pianto, di fame, d’amore;
e…guarda! Il rosicchiolo è qui “.
La morte è l’esemplificazione più compiuta della dedizione di una madre, che sembra divenire tale non tanto nel momento in cui concede la vita, bensì quando se ne diparte, quando pone fine alla propria esistenza per garantire quella della prole.
Alcuni, tuttavia, hanno posto rimedio, in un certo senso, all’inevitabilità del fato: è il caso di Montale. In A mia madre – La bufera e altro – il poeta sostiene che la madre non possa morire perché ha lasciato nell’animo dei vivi un ricordo indelebile grazie ai gesti e alla sua unicità fisica e biologica. Questo non significa, tuttavia, che l’anima perda di importanza. Solo questo concede di vincere la morte (solo questo ti pone nell’eliso): il “folto d’anime e di voci in cui tu vivi” o, in altre parole, il ricordo che ciascuno di noi è capace di imprimere nell’animo altrui. Ed è questa una visione del tutto immanente, fondata sul valore terreno dell’esistenza: solo nella memoria dei vivi si può sopravvivere e soltanto questo è l’eliso (forse ironica la scelta del termine pagano?). Ma c’è dell’altro e d è l’ombra della guerra che offusca l’orizzonte di un componimento apparentemente sereno. Ai versi 4 e 5 se ne trova un esplicito riferimento:
“or che la lotta/ dei viventi più infuria”. Dunque i gesti della madre sono inseriti in un preciso contesto, connotato anche geograficamente. Al verso quattro si fa riferimento a Mesco, nelle Cinque Terre, in cui il poeta trascorse l’infanzia. Ecco che, dunque, il valore dei morti viene a coincidere con il recupero dell’infanzia e la madre diviene lo strumento per riscoprire un tempo, un luogo ed una civiltà da contrapporre al presente.
Se, però, Montale non si rivela così influenzato dalle recenti scoperte di Freud, in Pasolini la sua presenza è chiara. Il testo Supplica a mia madre, del 1964, pare una confessione drammatica, una dichiarazione di insostituibilità della donna dolce e gentile, quasi a riconoscere l’esclusività di questo particolare rapporto cui alcuni hanno voluto imputare l’omossessualità del poeta. Un profondo conflitto edipico racchiuso in una catena di distici, a rima baciata, che tentano di nascondere dietro ad una forma solida e regolare l’angoscia prepotente che divora il poeta, ma soprattutto l’uomo. Riporto i versi 5-8:
“Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data”.
E infine gli ultimi due, strazianti:
“ti supplico, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…”.