Americani di Tienanmen: “Piccoli dèi” di Meng Jin
[…] nei primi giorni della Rivoluzione culturale lei e i suoi compagni di classe avevano lapidato a morte la loro insegnante di fisica del liceo, una donna ragionevole che portava i capelli lunghi legati in uno chignon alla base della nuca. È questo che l’infermiera vede nelle facce dei bambini intorno a lei. Una fame di rivoluzione, una Grande Rivoluzione qualsiasi, qualunque cosa rappresenti, a patto di stare dietro il suo pugno arrabbiato. Piccoli dèi, pensa. Che non vedono l’ora di trasformare i loro corpi in crescita, i loro dolori e le loro disperazioni, nella sostanza che possa rimettere in sesto i mondi. Di cosa si è trattato in fondo, se non di un gruppo di bambini, tutti eccitati all’idea di infrangere le regole!
A partire dallo scorso 8 settembre, tra le chicche narrative proposte da Codice Edizione è disponibile Piccoli dèi, romanzo d’esordio di Meng Jin. La traduzione dall’inglese è di Monica Capuani; Meng infatti vive in America, a San Francisco e, pur essendo cinese di nascita, scrive in inglese. Non si tratta di un caso isolato, ma di una scelta comune a molti autori e autrici, raccolti sotto il termine ombrello di Sino-American writers. Come molti di loro, Meng Jin riflette sulle tematiche relative all’immigrazione, ad esempio l’identità e la lingua.
Il romanzo si sviluppa a partire dalla notte del 4 giugno 1989. Mentre in Piazza Tienanmen l’esercito marciava contro i manifestanti, in un ospedale di Pechino una donna terrorizzata partoriva una neonata. Quella donna era Su Lan, una brillante fisica che aspirava a indagare le leggi del tempo così a fondo da poterle sovvertire. Tutto il romanzo ricostruisce, attraverso voci narranti di volta in volta differenti, le vicende e la psicologia di Su Lan. Da ragazzina povera a studentessa modello, ricercatrice in declino e madre emigrata. Malgrado la figlia e la nuova vita negli USA, Su Lan resta ossessionata dal proprio passato e dall’idea di poterlo rivivere grazie alla ricerca scientifica.
Sarà invece Liya a tornare in Cina dopo la morte della madre, sulle tracce del passato e del padre che non ha mai conosciuto. Non solo: partita per l’America quando era ancora piccolissima, Liya non ha memoria del paese natale e del suo modo di vivere; sperimenta quindi una sorta di shock culturale, ha difficoltà con la lingua e non sa come comportarsi. È una ragazzina di diciassette anni, alle prese con una realtà diversa e, soprattutto, con il doloroso compito di ricostruire la storia enigmatica della madre.
È così che scopre che le sorti di Su Lan e le proprie sono intrecciate alla storia della Cina; la notte di Tienanmen rappresenta il momento rivelatorio, l’apice di questa intersezione che risulta chiara al lettore durante tutto il racconto.
È infatti fin dalle prime pagine che Meng Jin chiama in causa le peculiarità e le problematiche della società cinese con cui i personaggi devono fare i conti: tocca il tema dell’altissima competizione scolastica e del gaokao (il famigerato equivalente dell’esame di maturità, con la differenza che per i cinesi si tratta davvero di un momento in cui si decidono le sorti della propria vita), la campagna di demolizioni forzate che ha costretto moltissimi cinesi ad abbandonare le proprie case per trasferirsi in abitazioni più “decorose”, la difficoltà e il senso di inadeguatezza dei cinesi che non riescono a cancellare la propria inflessione dialettale (il mandarino è il dialetto di Pechino e delle regioni limitrofe; nel resto della Cina si parlano varie lingue locali, spesso molto diverse fra loro. Un celebre esempio è lo stesso Mao Zedong, che pare si vergognasse molto della propria parlata hunanese).
Attraverso la giustapposizione di aspetti piccoli e grandi, Meng Jin ricostruisce non solo la storia dei personaggi, ma anche del paese che Liya, come probabilmente la stessa autrice, ha dovuto scoprire dalla posizione dell’emigrata.
Tra i temi più interessanti che coinvolgono l’io-migrante c’è senza dubbio quello della lingua, su cui Meng indugia volentieri durante il corso della narrazione. Liya racconta la propria difficoltà a parlare agevolmente cinese, e soprattutto a leggerlo e scriverlo (ricordiamo che la pronuncia dei caratteri è raramente deducibile; non c’è corrispondenza automatica tra grafemi e fonemi come nelle lingue alfabetiche). La sua esperienza porta alla luce il modo in cui un diverso sistema linguistico influenza la nostra percezione della realtà e perfino il nostro modo di apparire e il nostro atteggiamento.
In cinese, mi resi conto, i verbi non cambiano a seconda del tempo passato o presente. Però alla frase si aggiungeva un segno per indicare quando era successa un’azione nel momento in cui si stava parlando, e questa indicazione era più simile a un’indicazione di spazio che di tempo. Così, invece che prima e dopo, le cose accadevano avanti a te e dietro di te, in alto lungo la corrente o in basso lungo la corrente. Mia madre non me lo dice, ripetei, senza usare nessuno di questi segni. Mi sentivo bene a usare quell’ambiguo presente.
Lo spaziare da Shanghai a Pechino, dalla Cina all’America e dal passato al presente crea un vivace alternarsi di situazioni e punti di vista. Le esperienze di Su Lan, di Liya e degli altri personaggi non seguono un ordine cronologico, ma un intreccio intelligentemente orchestrato, equilibrato e non dispersivo.
Nel complesso, il libro risulta chiaro nonostante la continua variazione di ambientazioni e voci narranti, e fa emergere la precarietà e il senso di sospensione della condizione di Su Lan, costantemente in lotta tra un passato che non vuole affrontare e un futuro troppo incerto. Esattamente come nella vita vera, restano alcuni punti in ombra, che però non si trasformano in significativi buchi narrativi.
Personalmente penso che Piccoli dèi sia un bel romanzo di esordio, emotivamente permeante e ricco di spunti interessanti. L’ho trovato ben fatto dal punto di vista dello stile, piacevolmente diverso da buona parte della letteratura sulla Cina pubblicata negli Stati Uniti, che pare spesso orientata in modo spudorato alla polarizzazione filoccidentale. Meng Jin si propone come una firma promettente nel panorama narrativo sino-americano, che in generale sta facendo un lavoro interessante di rimescolamento delle categorie letterarie e di scoperta di punti di vista nuovi e inediti, come quello di Liya, ragazza americana nata nella lunga notte di Tienanmen.
Sul ciglio della piazza, fissando la spianata vuota, mi ritrovai a voler essere come mia madre, che voleva tagliare i ponti con tutto. Il desiderio di essere svincolata era fortissimo, perché essere svincolata significava essere indefinita, avere un corpo ripulito dal significato. Non volevo che i miei piedi fossero ormeggiati alla storia.