Culturificio
pubblicato 8 anni fa in Letteratura

Anne Sexton

la sua vita e le sue poesie

Anne Sexton

Cosa c’è in fondo alle trame dei rapporti uomo-donna? Come può, una giovane donna d’oggi, conciliare la propria espansione personale, la consapevolezza del proprio sé adulto senza che arrivi prima o poi una realtà sessista e costipante che la obblighi a rivedere i propri conti?

Nelle poesie di Anne Sexton non ho trovato nessuna formula risolutiva ma ho conosciuto una donna capace di dare corpo e colori a una lacerazione che temevo, ingenuamente, appartenesse a me soltanto.
Le sue poesie, come la storia della sua vita, raccontano di una donna costretta a entrare in un abito creato apposta per lei eppure della taglia sbagliata: i familiari, i dottori, le morti e le nascite che segnano quei quarantacinque anni sembrano orchestrati per mortificare una personalità desiderosa di conoscere e di esplorare, restituendole in cambio i fantasmi dell’abbandono, dell’inadeguatezza e uno scarso senso di sé. Il sé femminile è un ostaggio sociale che grida rivalsa e spazio vitale verso dopo verso.
Ultima di tre figlie, Anne Sexton nasce nel 1928 a Weston, nel Massachusetts, in una famiglia benestante. Suo padre è proprietario di un cotonificio, spesso assente da casa e con problemi di dipendenza dall’alcol. Sua madre è una donna bellissima cresciuta col sogno di diventare scrittrice: un sogno naufragato dopo il matrimonio e la nascita delle figlie. Non sembra esserci molto spazio per l’amore e l’ascolto, nella famiglia di Anne. Per fortuna, con loro vive anche la zia Nana, l’unica capace di alleviare la solitudine e la tristezza della sua infanzia. Ma questo debole rifugio non le è concesso a lungo: quando Anne ha tredici anni la zia Nana viene ricoverata per disturbi mentali. È il primo, grande strappo. Nessuno le spiega cosa sia successo alla zia Nana e nessuno riesce a colmarne il vuoto. Anne finisce per credere che la povera Nana sia impazzita sotto il peso delle sue richieste infantili, del suo sfiancante e inopportuno desiderio di essere amata. Il primo, grande strappo ha l’arma affilata del senso di colpa.
Anne Sexton non era una studentessa brillante, né particolarmente rispettosa delle regole ma amava leggere, amava la poesia e si esercitava con costanza per realizzare il suo sogno di diventare scrittrice. In questo era proprio come sua madre, che un giorno sfoglia il quaderno con i primi versi della figlia e poi sputa una sentenza che per Anne suona inappellabile: non sai scrivere, hai scopiazzato la tua poetessa preferita (Sara Teasdale), sei ridicola. Anne non scriverà più nulla, mutilata dall’umiliazione. Al posto della sua ambizione c’è un ritornello nuovo: la sincerità con cui credeva di scrivere non è altro che una truffa; quella pulsione creativa che sentiva nascere dalla sua intimità più profonda è solo una patetica maschera per attirare, piagnucolando, l’amore degli altri. È il secondo strappo. È l’inadeguatezza che congela ogni gemma che innocente sboccia nel sé.
Terminate le scuole superiori, Anne viene iscritta alla Garland School, una prestigiosa scuola femminile che vanta di sfornare mogli, madri e donne di casa perfette. Le allieve della Garland School passano le loro giornate studiando cucito, puericultura, buone maniere, imparano a fare conversazione senza mai essere inopportune e così via. Anne non è lì dentro da nemmeno un anno quando incontra Kayo, uno studente dell’Università di Colgate: se ne innamora subito. I due si sposano pochi mesi dopo, forse anche perché Anne è impaziente di fuggire dalla scuola: avvisa i genitori delle avvenute nozze con una lettera entusiasta e una bella fotografia. Ha soltanto diciannove anni ed è raggiante: ora andrà tutto bene, pensa. Finalmente non vive più in quella casa, non frequenta più quella scuola: può ricominciare da capo e costruire la propria felicità giorno per giorno insieme a suo marito, riempiendo la sua nuova vita di tutto l’amore che non aveva ricevuto da piccola.
Poco tempo dopo, con lo scoppio della Guerra di Corea, Kayo è costretto a partire come riserva navale. Anne non si perde d’animo e in quegli anni lavora come modella e come commessa in libreria.
Quando Kayo torna negli Stati Uniti, però, decide di lavorare per il padre di Anne, entrando a far parte dell’impresa del suocero. In And One For My Dame, Anne descrive suo padre come un uomo innamorato delle sue mappe, un uomo il cui cuore batte per nuove strade da percorrere, nuovi traguardi da conquistare. A sua figlia rimane la sensazione di essere inutile e fuori luogo, di dover risolvere la propria esistenza cercando di rendersi invisibile. Il desiderio di colmare la distanza fra sé e il padre è così forte che anche Anne prova a sedersi alla sua scrivania con una mappa fra le mani, nel tentativo di imitarlo. La mappa che stringe fra le mani però evidenzia lo scarto che, da donna, vorrebbe colmare con l’amore. È spiegazzata e non svela nessun entusiasmante itinerario da percorrere ma solo cimiteri, fusi orari, capitali, strade. Eppure il padre sembrava vedervi altre cose, sembrava saperla leggere in un modo misterioso: la mappa è un simbolo importante che va ben oltre la distanza padre- figlia e traccia quella ben più ampia e culturale fra uomo e donna. Il destino di una ragazza è molto diverso da quello dell’uomo nato e cresciuto nello stesso Paese, nello stesso ceto sociale e nello stesso periodo storico: quando apre la mappa la giovane donna si scopre incapace di vedere quello che vede suo padre, come con un libro che cambia lingua a seconda di chi lo apre. La mappa rappresenta anche gli Stati Uniti d’America e, quindi, il mondo in cui l’autrice sta vivendo: è soprattutto quel mondo che cambia lingua a seconda di chi lo guarda, che parla diversamente all’uomo e alla donna. L’idea di vivere in funzione di esigenze e velleità che siano strettamente individuali viene giudicata positivamente dalla società soltanto se è un uomo a metterla in atto. Fuggire dal proprio padre, inteso come archetipo della natura maschile, è un desiderio impraticabile e provare a imitarlo, vivendo secondo i suoi stessi valori, lo è altrettanto. Kayo, il giovane studente universitario nel quale aveva riposto tutte le speranze di una famiglia diversa e di un futuro felice, diventa un uomo assente e inaridito dalla vita d’impresa. È il terzo, grande nodo che le si stringe intorno: la disperazione, il naufragio di ogni speranza di cambiamento. Per gli uomini, come per le donne, sembra esistere uno stampo sociale nel quale vengono irrimediabilmente colate le identità individuali e tutti quei tratti che si discostano dagli stereotipi di genere. Provare sofferenza per questo annullamento o, peggio, non essere capaci di attuarlo significa essere malati. Anne conosce bene l’origine dei suoi disturbi mentali, è quel dolore insurrezionalista che le impedisce di vivere nei ranghi e di accettare che i propri cari lo facciano.
Nel 1953 nasce Linda ed Anne soffre di depressione post-partum. Viene ricoverata all’ospedale di Westwood Lodge dopo avere tentato il suicidio e affidata al Dr. Martin Orne per un percorso di psicoterapia. È il Dr. Martin a rimettere in mano ad Anne i nodi che hanno segnato la sua vita, invitandola a toccarli e a scioglierli con fiducia e determinazione. Intuisce che la sua paziente ha un dono, un meraviglioso dono: la scrittura. Intuisce che quel dono può essere salvifico per lei e per molte altre vite che, come la sua, patiscono nell’attesa di riconoscersi in qualcuno, in qualcosa. Sotto la sua spinta e la sua guida, Anne Sexton riprende in mano la penna dopo tanto tempo: un uomo, ancora una volta, sembra restituirle un sogno che le era stato portato via nell’infanzia. Pochi anni dopo pubblica la sua prima raccolta, To Bedlam and Part Way Back e You, Dr. Martin è la poesia di apertura. I suoi genitori muoiono a pochissimi mesi dalla pubblicazione, lasciandole l’amarezza di non essere riuscita a ottenere il riscatto da un’infanzia passata nell’indifferenza. Quell’approvazione tanto sognata e infine mancata per un soffio, i sensi di colpa per non essere riuscita ad essere una perfetta moglie americana, né una madre che non avesse bisogno di affidare ai nonni le sue bambine per andare a stare in un letto d’ospedale: tutto questo le rintoccherà dentro come un pendolo per sempre, fino al suo ultimo, tragico giorno.
Prima del 4 ottobre 1974, però, ci sono un Premio Pulitzer, centinaia di reading pagati a peso d’oro per tutta l’America e una brillante carriera come insegnante universitaria: un successo straordinario, considerando che la Sexton non è laureata ed è completamente autodidatta. Ci sono poesie dall’eco rivoluzionaria che scatenano polemiche e recensioni al vetriolo: parlano di aborto, di depressione, di una donna che si ritrae di fronte ai doveri che le ha imposto una società intera. Ci sono versi strazianti dedicati a due figlie lontane, che si sentono sole e stanno ripetendo quell’infanzia dolorosa che Anne conosce bene: ora è lei la madre imputata, è lei che non ha saputo evitare alle sue bambine le stesse sofferenze che a sua madre non aveva mai perdonato. Alla figlia Joey, scrive: avevo bisogno di un’altra vita / di un’altra immagine per ricordarmi. / E fu questa la mia più grave colpa;/ tu non potevi curarla o lenirla./ Ti ho fatta per trovarmi, gettando sull’esperienza della maternità un’ombra dissacrante. Se è vero che Anne Sexton è “la sola poetessa del genere confessionale”, la sua confessione fa a pezzi un’America: l’America degli happy days, delle mamme belle e sorridenti, delle mogli devote e delle casalinghe perfette, felici di spendere la propria vita in un gineceo anni Sessanta, di avere la televisione, l’automobile, l’aspirapolvere e il frigo sempre pieno. Sono gli anni del benessere, in cui cibi confezionati, elettrodomestici, programmi di varietà e tutto ciò in cui l’America ha fatto scuola si moltiplicano affannosamente. L’infelicità non è concessa: una donna borghese americana è una donna felice per definizione. Anne Sexton si affaccia su quel mondo bella, benestante, con la macchina, la villetta, le vacanze al mare con la famiglia e confessa che quella vita può essere un incubo. “Il cibo è troppo e nessuno è rimasto a mangiare l’estrosa abbondanza”: c’è una coscienza nuova, l’idea precoce che tutta quella perfezione sia di plastica. E in quel mondo di plastica non esiste sorriso più indotto di quello stampato sul volto delle donne.
Prima del 4 ottobre 1974 c’è anche il divorzio dal marito Kayo e un’appassionata relazione con il suo nuovo terapista. Di lui non si sa molto, se non che Anne ne è profondamente innamorata. Di lui parla Eighteen Days Without You, una serie di poesie sui primi diciotto giorni dopo la fine di un amore, sulla vaga scia delle Diciotto Poesie di Dylan Thomas. Diciotto giorni di spaesamento, fantasie e disperazione in versi lapidari e strazianti, tanto che sfogliarne le pagine dà la sensazione di camminare su una distesa di vetri rotti.
Questa infelice relazione inizia quando Anne non ha ancora divorziato da Kayo e termina alcuni anni dopo, non molto tempo prima della sua morte. Il suo terapista-amante la riceverà sempre nel suo studio e i loro incontri amorosi verranno pagati da Anne come regolari sedute: anche per questo, la sua identità è rimasta nascosta.
Poi arriva il 4 ottobre 1974. Anne Sexton scende in garage ed entra nella sua auto. Muore per le esalazioni di monossido di carbonio prodotte dal tubo di scappamento. “Non ho niente contro la vita”, scriveva a Dio in Wanting To Die, celebrandone le bellezze e le opportunità. Piuttosto, è che la morte ha “un linguaggio speciale”: come un carpentiere, le importa solo il mezzo attraverso il quale potrà compiersi. Non chiede mai perché vale la pena costruire qualcosa, che è compito della vita. Anne ha provato a costruire una vita lontana dagli stereotipi di genere e dalle sue esperienze infantili ma qualcosa di più grande di lei sembra avere vanificato tutti i suoi sforzi. Sceglie di uccidersi avvolta nella pelliccia che era stata di sua madre. Forse vuole morire come era nata, scaldata da chi l’aveva appena partorita, calda di un calore di cui poi avrebbe sofferto la mancanza tutta la vita. O forse vuole lasciare un messaggio di sconfitta a tutte le donne che lottano per emanciparsi da modelli femminili sbagliati, da un mondo di uomini troppo distanti, da una serie di schemi nei quali non vogliono soffocare la propria unicità. Le sue poesie, però, raccontano un’altra storia e, forse, un diverso finale: una donna si è battuta per tutta la propria vita a favore di una libera e autentica conoscenza di se stessa senza mai chiudersi nel monologo di chi sta subendo un’ingiustizia sociale drammatica. In questo complicato intreccio di solitudini, di silenzi, di speranze disattese, la figura maschile rimane il centro gravitazionale di moltissime poesie: poesie d’amore, di disperazione, di nostalgia e di delusione in cui Anne Sexton invoca il suo contrappunto sessuale come quella parte mancante di sé di cui ha disperatamente bisogno per vivere. Oltre gli schemi socioculturali esiste l’uomo come altro dalla donna, un’alterità naturale, biologica, libera dalle sovrastrutture che hanno gerarchizzato queste differenze. In fondo a questa alterità naturale e non-gerarchizzata Anne Sexton ha scelto di consumare se stessa, insistendo per parlare agli uomini della sua vita: uomini ancora troppo lontani dal superamento delle barriere sessiste del loro tempo, eppure abbastanza vicini da far sperare a una poetessa di potere, un giorno, ascoltare la sua voce.

 

Articolo a cura di Laura Lobello