Camus trasforma Caligola
L'imperatore folle diventa letteratura
I deliri esistenziali di Camus travestito da Caligola non smettono mai d’incantare.
L’imperatore si muove tra la folla dei sudditi e dalla posizione di chi comanda egli giudica, sentenzia, condanna. Perfino il potere, tuttavia, si pone delle domande – forse – impossibili; la morale oscilla senza pendoli e, a più riprese, cozza contro una “rimozione” che vuole ritornare in superficie, rimozione veicolata dal rimovente, come Freud ha insegnato.
Caligola non sa più chi è. Ad ogni dialogo aumenta un desiderio indefinito; pare che la volontà emerga, nonostante tutto, eppure nessuno è in grado di comprendere se, alla fine, questo accada o meno. L’opera teatrale che suscita le mie speculazioni viene rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1945, dopo numerosi tentativi di dare allo scritto una forma definitiva. Appartiene alla “trilogia dell’assurdo” assieme al celebre “Lo straniero”, capolavoro del nulla, e al “Mito di Sisifo”, originale rielaborazione di una materia logora. Molti critici si soffermano soprattutto sul valore ideologico di “Caligola”, sul contingente storico, sulle circostanze sociali: io non sono un critico e per questo non lo farò. Di conseguenza il risultato potrebbe risultare carente, ingiustificato, arbitrario: e così sarà. La mia attenzione cade, superficialmente, sui processi psicologici del protagonista.
Innanzitutto è necessario un quadro del rapporto tra l’autore ed il movimento a cui, pur mantenendo un’individualità, egli appartiene. Camus è immerso ed agisce all’interno dell’esistenzialismo. In contemporanea Sartre e Simone de Beauvoir continuano a scoprire il mondo assieme, lontani o allontanati, Nietzsche è dietro l’angolo, Dostoevskij tra la magia dei libri stampati. Tutto è pronto da tempo, non occorre altro. Impossibile scrivere di questo; torniamo all’opera teatrale.
Non tratteremo la figura storica dell’imperatore in questione perché non abbiamo tempo e, soprattutto, non è questo il luogo.
Caligola, dopo aver perduto Drusilla, la sorella, alla quale era legato da un amore incestuoso e più che ambiguo, sprofonda verso la follia e compie un salto nelle tenebre. La morte di lei trascina una tragedia sublime.
Rovesciando il tema topico e tipico, scontato, dove l’eroe attraversa la narrazione e giunge maturo all’epilogo, l’imperatore corre lungo l’asse della perversione fino a perdere facoltà raziocinante e potere decisionale. A proposito di potere, quest’opera è certamente emblema di un presente storico abitato da dittature marce e spaventose; si pensi all’Unione Sovietica di Stalin ed alla Germania nazista di Hitler. Tuttavia, come detto, credo che Camus abbia voluto sottolineare un percorso interiore dell’imperatore “folle”, le cui tappe, progressivamente, acquistano tratti osceni e privi di senno, piuttosto che un’allegoria dei grandi dittatori, poco originale e limitativa per la penna di uno scrittore di tale spessore letterario.
Ritorniamo a Caligola. Seduto sul trono imperiale, ascolta annoiato la cronaca nera del regno, non si dispiace mai e anzi, si diverte a più riprese, si traveste da Venere e tenta, altrettanto annoiato, di sedurre qualche matrona. Trascorre intere giornate in compagnia di un’indifferenza complice, mentre il popolo muore ed ogni tipo di sciagura prende il sopravvento. Egli resta completamente sordo, e sorride senza essere felice. Nonostante il male manifesto, egli nutre una speranza di libertà mai assopita, un’esigenza di “anarchia”, una poesia nascosta all’interno del grottesco.
Albert Camus ha regalato ai posteri un tale squilibrio lirico, una tale perfezione imperfetta, che progredendo verso l’oblio cresce, paradossalmente, lieta; il lettore di oggi apprezzi queste poche pagine, perché hanno raggiunto le più alte cime della giogaia chiamata “letteratura”.