Culturificio
pubblicato 5 anni fa in Letteratura

Come diventai monaca

di César Aira

Come diventai monaca

Esce oggi Come diventai monaca, romanzo di César Aira, scrittore argentino particolarmente caro a Roberto Bolaño, edito da Fazi editore, che dello stesso autore ha già pubblicato Il pittore fulminato (2018).

Pubblichiamo di seguito un breve estratto del testo su gentile concessione dell’editore.


M’incamminai verso una porta, come attirata da una calamita. Notai con un residuo di coscienza che c’erano altri bambini nel cortile, tutti per mano alle loro madri. Un forte sole autunnale imbiancava le superfici. Era un’ora un po’ sonnacchiosa. Mi sentivo invisibile.

Nella mia esperienza, quello che più si avvicinava al carcere era l’ospedale. In entrambi i casi si trattava di stare rinchiusi a lungo. Però c’era una differenza. Dall’ospedale non si poteva uscire per una causa interna: il paziente, come avevo dimostrato, era impossibilitato a muoversi. Dal carcere, invece, non si poteva uscire per un altro motivo. Non sapevo bene quale: la forza era un concetto ancora poco chiaro per me. Mi feci un’idea mista, carcere-ospedale. C’era un elemento invisibile che si trasferiva dall’uno all’altro. Il dileguarsi della malattia, e il trasferirsi della coscienza malata a qualcun altro… Era il piano di evasione perfetto. Forse papò sarebbe potuto tornare a casa con noi… In questo edificio fin troppo realistico io sprigionavo la mia magia… Se papà si trovava qui per colpa mia…

La magia però iniziò ad agire su di me: una fantasticheria malinconica trasportò d’improvviso la mia anima in una regione assai remota. Come mai non possedevo bambole? Come mai ero l’unica bambina al mondo che non possedeva neanche una bambola? Avevo un papà in carcere… e non avevo una bambola che mi facesse compagnia. Non l’avevo mai avuta, e non sapevo perché. Non per la povertà o la tirchieria dei miei genitori (quelli non sono mai ostacoli per un bambino), ma per un’altra ragione misteriosa… All’interno del mistero, comunque, la povertà era un motivo. E adesso lo sarebbe stata ancora di più. Adesso saremmo diventate povere davvero, io e mamma, abbandonate, sole. Pertanto la bambola mi si presentò come un desiderio acuto, doloroso. Seguendo il mio abituale stile drammatico, mi lascia pervadere da un discorso nostalgico, ricco di variazioni. La bambola era svanita per sempre, prima che io imparassi le parole con cui chiederla, lasciando un buco aspirante al centro delle mie frasi… Mi vidi come una bambola smarrita, scartata, senza bambina…

Ecco cos’ero io. La bambina che non ero. Viva, ero morta. Se fossi morta, papà sarebbe stato libero. I giudici si sarebbero inteneriti per il padre che si era preso una vita in cambio di un’altra, soprattutto se una era quella della figlia adorata, e l’altra quella di un perfetto sconosciuto. Ma io ero sopravvissuta. Mi conoscevo. Non ero più quella di prima. Non sapevo come né perché, ma non ero la stessa. Intanto, la mia memoria era una tabula rasa. Prima dell’incidente nella gelateria non ricordavo niente. Forse non ricordavo bene nemmeno quello. Forse era avvenuto in realtà un baratto di vite: quella del gelataio in cambio della mia. Io avevo cominciato a vivere con la sua morte. Perciò mi sentivo morta, morta e invisibile…

Quando questa riflessione terminò, mi trovavo in un altro posto. In un interno. Come ci ero arrivata? Dov’era papà? Fu quest’ultima domanda a svegliarmi. Mi svegliò perché somigliava molto ai miei sogni. Ero sola, abbandonata, invisibile…

O avevo salito una scala senza rendermene conto, oppure, più probabile, gli scantinati dell’edificio erano stati ristrutturati. Infatti, in fondo a un corridoio deserto, che percorsi facendo un angelo di novanta gradi con l’intenzione di tornare nel cortile per abbracciare il mio papà, mi ritrovai su una sorta di piattaforma che incombeva su un recinto quadrato, diviso a metà da sbarre. Non senza allarmarmi, pensai che mi ero spinta troppo oltre. Mentre cercavo l’uscita, con la disperazione che conosco così bene, commisi anche quest’errore: non fidandomi di tornare sui suoi passi, m’infilai nel primo buco che trovai, un buco che si apriva nella parete, dove probabilmente stavano facendo lavori di ristrutturazione; era una buca, quasi una crepa, di quaranta centimetri di altezza e venti di larghezza massimo, al livello del battiscopa. La vidi come la scorciatoia perfetta per tornare al punto di partenza. Finii su una specie di cornicione a dieci metri dal suolo. Mi spostai lungo il cornicione stando incollata alla parete (mi terrorizzava l’altezza). Il soffitto era vicino. Di quello che c’era sotto, siccome non mi avvicinai al bordo irregolare, vidi solo un corridoio. Inoltre era piuttosto buio. Il cornicione, che in realtà era quanto rimaneva di un soffitto di gesso, terminava in un cubicolo; mi ci infilai. Era un abbaino. Uno spazio di un metro per un metro, con pareti di due o tre metri d’altezza; sopra, un quadrato di cielo. Sulle quattro pareti, a livello dei piedi, quattro feritoie che davano su profonde stanze buie. Una volta lì dentro, rimasi quieta. Mi sedetti sul pavimento. Pensai: «Passerò qui tutta la notte». Erano le quattro del pomeriggio, ma per me era iniziata la notte. Non potevo proseguire, dato che quel posto non aveva vie d’uscita. E non mi passò neanche per la testa di tornare indietro… In questo ero coerente. L’atteggiamento dei miei genitori verso di me aveva sempre quel fondo di «Questa volta sei andato troppo oltre». Non era mai «Sei tornato da troppo lontano», senza dubbio perché da lì non si tornava.

Tanto per far passare il tempo, e per tacitare altre preoccupazioni, pensai a papà. Lo moltiplicai per tutti gli uomini che stavano lì dentro, uomini disperati, espulsi dalla società, che non potevano abbracciare i figli… E io lassù, planando immobile su tutti loro… Io ero l’angelo. La cosa non poteva sorprendermi. Tutte le peripezie che si erano succedute, fin dall’inizio, fin dal momento in cui avevo assaggiato il gelato alla fragola, mi conducevano a quel punto supremo, a diventare l’angelo… L’angelo custode di tutti i criminali, dei ladri, degli assassini…

Tutti gli uomini incarcerati erano il mio papà. E io lo amavo. Se prima, stando fra le sue braccia, tenendolo per mano, avevo creduto di amarlo, adesso sapevo che l’amore era di più, molto di più. Bisognava essere l’angelo custode di tutti gli uomini disperati per sapere cos’era l’amore.

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