Conversazione con Daniele Maggioli
Dialogo con il cantautore riminese alla luce di sparsi spunti: le opere e i nostri giorni, i contesti. Ciò che è forma diventa contenuto
Daniele Maggioli nasce a Rimini nel 1977 e ha all’attivo quattro album da solista, di cui l’ultimo in uscita tra pochissimi giorni. Assieme ad Antonio Ramberti forma invece il Duo Bucolico, un’esperienza musicale completamente rivoluzionaria rispetto al solito panorama alternativo o indie: la sagacia dei due, i loro racconti dissacranti sono una formula insolita; si presentano come “cantautorato illogico”, che fa ridere e riflettere.
L’esperienza musicale di Maggioli si articola in quattro album, appunto, che riproducono porzioni narrative e musicali diverse fra loro. Si va dal primo, Pro Loco, che è intelaiato perfettamente nella cornice provinciale della sua città d’origine, città-simbolo di un’Italia intera. Il secondo lavoro, Karaoke blues, avvicina la letteratura, mutando dunque gli orizzonti sul quale si pongono i testi che, senza alcuna pretenziosità, godono di una purezza stilistica ammirevole. “Tendo ad essere troppo accademico, mi rendo conto. Ma io quando faccio un concerto mi pongo come il ricercatore che espone i frutti dei suoi esperimenti al mondo”: questa la sua cifra stilistica. Il terzo album, Senzatitolo, è una silloge di canzoni dal più ampio respiro musicale, laddove i testi cominciano a rarefarsi e la musica tenta d’imporsi con soluzioni nuove, assolutamente originali. Una fase di passaggio all’ultimo lavoro, presto in uscita, Fino all’ultimo respiro. E con lui abbiamo provato a tracciare un percorso ideale.
Colgo l’occasione per ringraziarlo ancora dell’estrema disponibilità dimostrata.
Dal tuo primo album Pro Loco emerge una definizione della tua città d’origine, Rimini: bipolare. Quanto ti ha dato Rimini? Quanto di Rimini passa in una produzione, come la tua, che è un divertente oscillare tra i poli del movimento Dada e la serietà letteraria?
Ho una formazione letteraria. Per me è impensabile scrivere una canzone, che è un racconto, senza ambientarla in un luogo. Rimini è stata la casa delle mie prime canzoni. Era un territorio molto interessante da infilare in una canzone. Lo avevano fatto in pochi, quindi gli scenari diventavano freschi, in più è un luogo simbolo, conosciuto da tutti. Dopo questa fase “pittorica”, che coincide più o meno col mio primo disco Pro Loco, Rimini è diventata una matrice più astratta, quasi un brodo primordiale che uso per guardare il mondo e le sue contraddizioni. Io abito qui: Rimini è uno scenario, una scenografia che incombe su di me. Ma me ne sto liberando. Ad esempio nel mio nuovo disco il filo conduttore tra i brani è la città: la città intesa come spazio astratto, come sistema di poligoni e di scatole. A pensarci bene io ho sempre cantato la città, i villaggi, gli spazi urbani. Rimini era quindi un punto di partenza, non di arrivo. A me interessa la città, lo spazio in cui le persone si incontrano, e non Rimini in quanto tale.
Ascoltando la canzone “I mostri sacri” che canti assieme ad Antonio Ramberti, col quale formate il Duo Bucolico, ho sempre pensato che dessi modo d’intuire quale sia la tua formazione musicale, come un implicito manifesto di poetica. Andando oltre lo schermo della dissacrazione, sono questi gli autori che tu hai come riferimenti? Sono cioè loro i tuoi mostri sacri?
Esatto. Forse solo Venditti e Gaber sono un po’ imbucati, in quel pezzo. Gli altri sono stati grandi punti di riferimento per me. Ho studiato tanto De Gregori e De Andrè, e Dalla, ma ad un certo punto bisogna provare ad ucciderli, ad abbandonarli. La santificazione degli artisti del passato è una sorta di delega della nostra coscienza: “tanto ci pensano loro a dire”. Mi dà profondamente fastidio sentire dire che non c’è più niente di nuovo da inventare. È pura vigliaccheria. Io mi oppongo a questo meccanismo. Infatti più in generale è una canzone contro la nostalgia e contro l’idea che si stava meglio quando si stava peggio. Credo che la mia generazione si sia addormentata, incapace di prendersi la responsabilità di guardare avanti, di sperimentare con i linguaggi, di osare. Per questo i mostri sacri vanno abbattuti, perché solo affrontando il vuoto che resta, la vertigine, potremmo rimetterci a fare cultura. La nostalgia è un atteggiamento che cerco di uccidere in me stesso, per primo.
Nella prima domanda accennavo a “serietà letteraria” pensando ai testi curatissimi di Marcel Proust, Giorgio Borges, Roma K69996 (Diario agro pontino). Sbirciando la tua biografia, ho saputo che sei laureato in Teorie della Letteratura e che con il professore Gabriele Pedullà hai lavorato agli Epigrammi di Beppe Fenoglio. Come si lega la tua canzone alla letteratura? Quale relazione intrattiene con essa?
La letteratura è il mio sguardo. Il linguaggio è il mio orizzonte. Tutto quello che scrivo, e anche i miei occhi, come guardo il mondo, sono frutto delle mie esperienze letterarie. In realtà avrei voluto fare lo scrittore, il romanziere. Sognavo di essere il nuovo Hemingway. E invece mi ritrovo davanti a un microfono a cantare. E lo faccio come stessi scrivendo un romanzo. È una mia peculiarità. Spesso la letteratura diventa un argomento nelle mie canzoni. È la forma che diventa contenuto. Mi sembra un’operazione interessante. La “serietà” è sicuramente una mia croce. Infatti tende ad impaurire il mio pubblico. Tendo ad essere troppo accademico, mi rendo conto. Ma io quando faccio un concerto mi pongo come il ricercatore che espone i frutti dei suoi esperimenti al mondo.
Il terzo album, Senzatitolo, ha lasciato emergere un’altra faccia della tua creatività: iper-realismo, “psicopanorami” e nuove possibilità strumentali, nuove sonorità. Che cosa dovremmo aspettarci dal prossimo album che, sempre sbirciando, ho saputo sia pronto alla pubblicazione?
Senzatitolo è il titolo di una silloge di poesie di Edoardo Sanguineti: come volevasi dimostrare! Quel disco è molto di passaggio. Ne ero consapevole. Volevo aprire la strada ad una scrittura più aperta, più ariosa, con meno parole e più svolgimento musicale. Ma ancora il cantastorie che è in me era ingombrante. Nel nuovo disco, forse, sono riuscito finalmente a trovare un maggiore equilibrio tra suono e parola. Si intitolerà “Fino all’ultimo respiro”. È un disco molto elettronico, suonato quasi interamente da me. È frutto dei miei sogni, dei miei esperimenti domestici. È un tentativo di uccidere definitivamente il cantautore che è in me. È fatto di canzoni d’amore, tutte ambientate in contesti urbani, dentro città di sogno, di carta, di cemento, di cristallo. L’amore e la città, il privato e il pubblico, il pensiero e il paesaggio, in continuo conflitto.
Dalle tue risposte elaboro un’ultima osservazione, cui vorrei far seguire una tua versione, una tua idea sulla cosa. Abbandoniamo la formalità dell’intervista.
Tutto ciò che mi hai detto, specialmente nell’ultima risposta, mi fa intuire un’analogia con Italo Calvino e le sue Città invisibili: per Calvino, quel romanzo non ha una conclusione, direi io una definizione, ma ne esistono molte, a ogni spigolo delle città, negli angoli di quei multiformi poliedri che la compongono. Il tuo ultimo disco sembra accennare a questo, nell’avvicinare il contesto urbano e nel sottintendere che la sperimentazione è tale se non si ferma. Sei profondamente –è uno scempio come termine, ma prendilo alla buona- duemilesco, perché appunto uccidi la nostalgia per lasciare il posto all’esperimento, a qualcosa di attuale, nel senso cronologico e di ciò che si attua nel presente. “Fino all’ultimo respiro” sperimenterai, sembra inevitabile la condanna. Io però ti ringrazio.
In effetti Le città invisibili è uno dei libri che hanno contribuito all’ambientazione del mio disco, ma solo lateralmente, direi. Un testo fondamentale per la genesi del disco è La ragazza Carla di Elio Pagliarani. Ho studiato quel testo e ne ho fatto anche delle riduzioni musicali. Quella Milano dal cielo d’acciaio, lo spaesamento della protagonista, il fatto che la città si mostri con mille volti diversi, mi hanno sicuramente influenzato.
La tua osservazione però è giusta. L’impalpabilità della città è sicuramente un’allegoria dello spaesamento di chi manipola i linguaggi. Ho intitolato il disco Fino all’ultimo respiro, ma uno degli altri titoli a disposizione era Architetture. Infatti mentre facevo mi sono sentito un po’ architetto, un po’ esploratore e un po’ fotografo. Per questo la città è indicibile: perché ogni volta affiora da punti di vista diversi. Se ci pensi nel film di Godard, Fino all’ultimo respiro, protagonisti sono i due innamorati e la città, Parigi, che diventa una specie di macchinario che produce storie, intrecci e relazioni, suspense e incanto. Dall’altro lato, se preso alla lettera, il titolo suggerisce perfettamente il senso di ricerca verticale che mi ha spinto a lavorare sulle canzoni, quasi da doverle affrontare come delle montagne, a perdifiato. In questo senso mi sembra sintetico.
Io non so se sono contemporaneo, se quello che sto facendo ha un significato nel mondo che mi circonda. Non devo pensarci troppo, se no rischio di immobilizzarmi. Semplicemente, credo sarebbe più interessante condividere dei risultati inediti che ripetere in continuazione le stesse formule consolatorie. La cultura non è consolazione, bisogna recuperare un minimo di senso dell’avventura. La condanna della sperimentazione è infatti un piacevole inciampo che sa di adrenalina. A me fanno molta più paura il vuoto, il silenzio e la proliferazione degli slogan, che sono una forma di poco più evoluta del vuoto e del silenzio.
Grazie a te!