Dante, l’uomo oltre il poeta
Oggi, nell’anno del settecentesimo anniversario della sua morte, si celebra il Dantedì, la giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri. Era il 25 marzo 1300 quando il sommo poeta si ritrovò «per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita» e intraprese il viaggio ultraterreno che ha plasmato l’immaginario collettivo nel corso dei secoli. Un’occasione, come si legge sul sito del Governo, per ricordare il genio di Dante in Italia e all’estero.
Commemorarne l’immensità letteraria non dovrebbe far dimenticare un aspetto evidente, ma non per questo banale: Dante era un uomo. Fatto di carne e ossa, animato da amori e passioni, attore della vita politica e sociale del tempo. Non va quindi pensato solamente come un personaggio metastorico, un paladino della cultura e un motivo di orgoglio nazionale: bisogna fare attenzione a non trasformare un genio in un simulacro. La genialità è tale per la sua autenticità, e l’autenticità va riconosciuta in relazione al contesto nel quale opera. Il genio è nella storia.
Quest’aspetto è rimarcato dal medievalista e divulgatore storico Alessandro Barbero. Da anni il professore racconta l’uomo oltre il poeta in diverse conferenze culminate nella pubblicazione del libro Dante (Laterza, 2020). Barbero ripercorre l’intensa parabola dantesca attraverso una narrazione avvincente – sostenuta dalle numerose fonti a disposizione – ma anche consapevole di alcune insondabili lacune che dividono i dantisti. Nella sua ricostruzione coinvolge il lettore, come se si trovasse su un palco davanti a lui. Insomma, c’è chi ha letto il libro imitando la voce del professore e chi mente.
Dante Alighieri nasce a Firenze nel 1265, sotto il segno dei Gemelli. Presumibilmente nella seconda metà di maggio, ma il giorno preciso è ignoto. Barbero riporta numerosi passi in cui il poeta ricorda con orgoglio di essere fiorentino:
Che Dante sia proprio nato a Firenze, lo conferma lui stesso nel XXIII dell’Inferno (“I’ fui nato e cresciuto / sovra ‘l bel fiume d’Arno alla gran villa”) e nel Convivio, dove si dichiara “nato e nutrito” nel suo “dolce seno”. Nel De vulgari eloquentia aveva affermato d’essere “oriundus et civis” di Firenze, e di aver bevuto dall’Arno prima di mettere i denti; nel XXV del Paradiso chiama Firenze il “bello ovile ov’io dormi’ agnello”, e parla del “fonte / del mio battesmo” intendendo che è stato battezzato, come tutti i fiorentini, nel battistero di San Giovanni, quello che in un altro luogo ha chiamato il “mio bel San Giovanni”.
Dal 1260, dopo la battaglia di Montaperti e la sconfitta guelfa, Firenze è ghibellina. Nell’affrontare la questione si deve tenere presente che questa dicotomia regge fino a un certo punto. Sulla scia di altri studiosi, verso la fine del libro, Barbero sottolinea come «bisogna uscire dallo schematismo per cui città guelfe e città ghibelline avrebbero costituito due fronti compatti divisi da un abisso invalicabile».
Si tratta di un rapporto complesso, una falsa inimicizia fatta di compromessi e opportunismi vari. A grandi linee, però, le due fazioni esistono e si alternano nel controllo delle città toscane. Dopo la vittoria di Montaperti i ghibellini sostengono la totale distruzione di Firenze, alla quale si oppone strenuamente Farinata degli Uberti. Nel X canto dell’Inferno il nobile fiorentino ribadisce al poeta di essere stato l’unico a difendere la loro patria:
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto (Inf. X, 91-93).
A ogni modo dopo il 4 settembre 1260 molti guelfi vengono banditi, ma tra questi non figurano né il nonno di Dante (Bellincione) né il padre (Alighiero). «Non erano così importanti, o così compromessi», commenta il professore. Uomini d’affari, prestatori di denaro, usurai in senso letterale e non in modo dispregiativo, visto che l’attività creditizia è la norma del periodo. Gli Alighieri sono una famiglia con un cognome da poche generazioni e dunque in ascesa: «Rispettabili, anche se non nobili».
Il rapporto di Dante con la nobiltà è caro a Barbero e non a caso viene trattato all’inizio del libro. È un argomento spinoso, su cui il poeta ha cambiato opinione nel corso del tempo. In un celebre passo di Inferno XVIsi scaglia contro «la gente nuova e i sùbiti guadagni», colpevoli di aver corrotto moralmente Firenze.
Per il quadro che si è appena delineato, è evidente come questa condanna colpisca anche la sua famiglia. Se Dante può vivere di rendita è perché il nonno e il padre hanno fatto parte di quella gente nuova che, tramite il denaro, si è elevata socialmente. Allo stesso tempo è interessato a difendere la sua presunta nobiltà, con motivazioni che variano a seconda dei periodi. Nel Convivio, composto tra il 1304-1307 e rimasto incompiuto rispetto al disegno iniziale, la posizione è radicale: non si è nobili per sangue, ma per virtù. Così facendo si definisce nobile indipendentemente dai propri parenti, da cui sembra prendere le distanze. Qualche anno dopo la tesi espressa nella Monarchia è molto più concordante. Qui è interessato a legittimare la figura dell’imperatore, riconoscendo due tipi di nobiltà: «O perché si è virtuosi, o perché i propri maggiori sono stati virtuosi; e questa nobiltà, diciamo così, indiretta si eredita, e conferisce dei diritti». Dunque i maggiori, ovvero gli antenati, hanno un ruolo attivo nella definizione dello status sociale.
E allora nel XVI canto del Paradiso, scritto mentre si trova in esilio dal signore di Verona Cangrande della Scala, il sommo poeta chiude il cerchio con l’asso nella manica. Si tratta di Cacciaguida, il suo trisavolo, che sarebbe stato investito cavaliere direttamente dall’imperatore Corrado III. Quella dantesca è una narrazione affascinante, ma che non trova conferma nella storia. Eppure basta a far emozionare il poeta davanti alla sua debolezza, alla tentazione di cedere al miraggio della nobiltà di sangue rigettata in gioventù:
«E dopo averla confessata, Dante si prende il lusso di recuperare l’opinione che aveva espresso qualche tempo prima, non nel Convivio, che davvero è irrecuperabile, ma nella Monarchia: e di ribadire che la nobiltà ereditata dagli avi, anziché accrescersi col passare del tempo, si dissolve e finisce in nulla, se non è continuamente rincalzata con l’aggiunta quotidiana di nuove azioni virtuose».
Perché questa preoccupazione, se non ossessione, per la nobiltà? Barbero evidenzia come, per un cittadino dell’epoca, la questione sia molto più significativa rispetto a oggi. Implica appartenere a una famiglia, avere un cognome, possedere uno stemma e soprattutto essere riconosciuti socialmente per vivere nella storia. In più Dante vorrebbe sanare lo scarto con le sue amicizie altolocate, i nobili di sangue Guido Cavalcanti e Forese Donati, collocandosi nell’élite cittadina. Sentirsi come loro, insomma. A ogni modo, fin da piccolo, appartiene alle sfere alte della società.
La stabilità economica della famiglia gli permette di avere un’educazione superiore alla media, non finalizzata al lavoro in bottega, con buoni rudimenti di latino. Ma il genio si sviluppa altrove. La data chiave è il 19 giugno 1290, il giorno della morte, a soli venticinque anni, di Bice di Folco Portinari. È Beatrice, l’amore platonico con cui il poeta non è mai riuscito a scambiare una parola, spostata con il cavaliere Simone de’ Bardi per motivazioni politiche. Una pedina come tante nella Firenze del XIII secolo. Proprio il dolore per il lutto spinge Dante a dedicarsi agli studi:
Da allora non smise più di studiare; tanto che a un certo punto si accorse che gli ballava la vista, e dovette curarsi con lunghi soggiorni al buio, e ripetuti lavacri d’acqua fredda, per evitare il peggio.
La sua formazione è difficile da ricostruire, e ne esistono versioni differenti, ma è indubbio che abbia letto moltissimo, iniziando da Severino Boezio e Cicerone come ricorda nel Convivio. D’altronde il tempo non gli manca, visto che non deve lavorare per vivere, potendo contare sul modesto patrimonio familiare. Si discute ancora molto sulla quantità di queste ricchezze: sembra convincente la posizione dell’umanista fiorentino Leonardo Bruni per cui «contuttoché di grandissima ricchezza non fusse, nientedimeno non fu povero, ma ebbe patrimonio mediocre, e sufficiente a vivere onoratamente». Quanto all’amore si sposa con Gemma di Manetto Donati, forse nel 1293. Un matrimonio rimasto celato, a cui il poeta non fa mai cenno nelle sue opere.
Se da un lato c’è la cultura, dall’altro c’è la politica. Dante nasce in una Firenze ghibellina, che però solo tre anni più tardi (1268) torna in mano ai guelfi. La seconda metà del Duecento è caratterizzata dalla definitiva affermazione guelfa e dalla progressiva ascesa fiorentina. Questo processo si concretizza nella battaglia di Campaldino, combattuta l’11 giugno 1289, con la vittoria dello schieramento guelfo guidato da Firenze su quello ghibellino di Arezzo. A Campaldino c’è anche Dante, come sottolinea Leonardo Bruni, rimproverando a Boccaccio di non averne parlato nella sua biografia dantesca, il Trattatello in laude di Dante: «La partecipazione alla battaglia serve al Bruni a dimostrare che Dante, nonostante l’enorme impegno negli studi, non viveva fuori dal mondo, anzi era un giovane come tutti gli altri – ed essere giovane significava anche andare in guerra quando la patria lo richiedeva».
Parallelamente bisogna tenere presente che da vari decenni a Firenze vige un regime di popolo. La struttura stratificata dell’amministrazione comunale comprende persone appartenenti a professioni differenti. Tutto sommato essere nobili non è così importante, anzi può rappresentare un limite. Per fare politica bisogna essere iscritti a un’Arte e così Dante entra in quella dei Medici e Speziali. Nel 1295 viene nominato membro del Consiglio speciale del capitano del popolo. L’anno successivo è nel Consiglio dei Cento. Poi non si hanno più sue notizie per diversi anni a causa di vaste lacune nei verbali delle riunioni, come rimarca Barbero. Nel giugno del 1300 viene eletto nel governo dei sei priori, la massima carica cittadina. È la nomina più importante, che arriva in un momento drammatico per Firenze. La città è infatti scossa dallo scontro sempre più aperto interno ai guelfi. Da una parte ci sono i Neri, capeggiati dai Donati, dall’altro i Bianchi, guidati dai Cerchi. In questo conflitto di interessi Dante, amico di Forese Donati e suocero di Manetto Donati, parteggia moderatamente per i Cerchi.
A complicare la situazione c’è l’intervento diretto di papa Bonifacio VIII, una personalità per nulla accomodante verso cui Dante non nutre alcuna simpatia. La sua volontà «era innanzitutto che il partito non si spaccasse; ma se doveva succedere, tutti sapevano che il papa si sarebbe schierato piuttosto con i Donati, perché i suoi banchieri, gli Spini, erano della loro fazione». In un primo momento, sul finire di maggio, invia il cardinale Matteo d’Acquasparta in qualità di paciere. Nei due mesi di governo, Dante prende parte alla condanna all’esilio di vari esponenti di entrambe le fazioni guelfe, tra cui il suo grande amico Guido Cavalcanti. Una decisione radicale per riportare un po’ di calma che invece scalda ulteriormente gli animi. Dopo mesi di incertezza e movimenti nell’ombra, Bonifacio VIII manda un secondo uomo di pace. O meglio, di guerra. Ai primi di novembre del 1301 Carlo di Valois entra a Firenze con milleduecento cavalieri, i Neri prendono il controllo della città e i Bianchi vengono massacrati o esiliati:
Per cinque o sei giorni i Neri uccisero, torturarono, saccheggiarono e incendiarono a loro piacere. Anche le proprietà di Dante vennero devastate, come ricorda il Bruni: “gli fu corso a casa, e rubata ogni sua cosa, e dato il guasto alle sue possessioni”. Il Villani, raccontando quelle giornate di terrore, precisa che i vincitori “cominciarono a rubare i fondachi e botteghe, e le case a chi era di parte bianca”, e poi procedettero a sistematiche spedizioni punitive contro le loro proprietà in campagna.
Così Dante, che secondo alcuni in quel momento si trova come ambasciatore a Roma, vivrà in esilio i suoi ultimi vent’anni. In un primo momento si dispera per la povertà imprevista, partecipa ad alcuni fallimentari tentativi di rientro forzato nella città e arriva persino a pentirsi per farsi riaccogliere a Firenze. Sostiene, con la Monarchia, la discesa dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo: la sua morte, il 24 agosto 1313, stronca definitivamente il sogno dantesco di rivedere la tanto amata patria. Mentre vaga, di reggia in reggia, il poeta racconta ciò che l’uomo continua a vivere. Prima del soggiorno ravennate, dove si spegne nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, è ospite per diversi anni alla corte veronese di Cangrande della Scala, a cui dedica il Paradiso. È nel sedicesimo canto che, come si è visto, incontra il suo avo Cacciaguida e arriva alla sintesi di cosa significhi essere nobili. Una nobiltà virtuosa, con i limiti e le contingenze proprie della vita, perseguita dall’uomo nel corso del tempo e resa immortale dal poeta:
O poca nostra nobiltà di sangue,
se gloriar di te la gente fai
qua giù dove l’affetto nostro langue,
mirabil cosa non mi sarà mai:
ché là dove appetito non si torce,
dico nel cielo, io me ne gloriai.
Ben se’ tu manto che tosto raccorce:
sì che, se non s’appon di dì in die,
lo tempo va dintorno con le force (Par. XVI, 1-9).
di Lorenzo Pennacchi