Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Letteratura

Djuna Barnes

Djuna Barnes
 

Conosciuta soprattutto per Nightwood (1936), Djuna Barnes (1892-1982) trascorse gli ultimi quaranta anni della sua vita a scrivere poesie in un isolamento autoimposto, nel piccolo appartamento di Greenwich Village. Sebbene fra i grandi scrittori modernisti, Barnes non ha mai raggiunto la fama dei suoi contemporanei, T. S. Eliot, Virginia Woolf, William Faulkner, né ancora in vita raggiunse in vendite il successo critico di Nightwood.

Forse Muffin ha ragione quando dice che il mio libro è nato, non scritto. Un buon libro di una donna sembra essere un po’ come il lettino di un neonato, il che mi fa star male solo a pensarlo, gli uomini possono spargere libri ovunque come il loro seme. (da una lettera a Emily Holmes Coleman)

Tuttavia, l’opinione generalmente accettata che negli ultimi quarant’anni della sua vita, mentre combatteva alcolismo e varie infermità, Djuna Barnes scrisse solo qualche poesia, una commedia in versi, The Antiphon (1958), e Creatures in an Alphabet (1982) – una raccolta di poesie che prende la forma di un bestiario – è scorretta e basata esclusivamente sul numero di lavori pubblicati. Quegli ultimi quarantasei anni, invece, sono stati molto altro: quando Djuna morì nel 1982, il suo appartamento era pieno di note, poesie, memorie a cui l’autrice lavorò assiduamente. I suoi archivi dimostrano oggi che scrisse costantemente, ossessivamente, riscrivendo spesso le stesse poesie dozzine di volte.

Grazie al fratello Saxon, molto di questo materiale fu spedito alla Collezione Barnes dell’Università di Maryland, College Park, (l’istituzione possedeva già materiale venduto dalla stessa autrice tra il 1972-1973), nonostante le richieste dell’autrice di distruggere dopo la sua morte tutte le note e bozze che avrebbero trovato sparse per la casa. La collezione raccoglie a oggi manoscritti, bozze, corrispondenze, disegni e fotografie. Le numerosissime poesie non pubblicate apparvero postume solo nel 2005 (e in parte) nel bellissimo volume Collected Poems. With Notes Towards the Memoirs (The University of Wisconsin Press) dal quale molti riferimenti vengono qui ripresi.

È proprio dall’analisi dell’archivio che scopriamo un’autrice che, sì, ha pubblicato tutti i generi, ma con una dedizione speciale per la poesia. Le sue prime e ultime pubblicazioni sono state, infatti, poesie: nel mezzo, settant’uno anni di apparente pausa. Tuttavia, l’analisi delle carte d’archivio ci dimostra che non accorse una vera pausa, piuttosto un lungo periodo di studio e scrittura di liriche che rimasero inedite.

La poesia della prima Barnes consiste di liriche chiare e trasparenti, in contrasto con quella di una Barnes matura che raffina esperimenti modernisti. In una nota, riassume con umorismo e arguzia l’ossessione che forse sta al centro della sua scrittura: «L’uomo vive sotto l’orribile pressa di pube e fossa».

Le prime liriche sono piene di orrore per la vita moderna; immagini macabre che acuiscono il tema, sempre ricorrente, della morte. La vita è piena di amarezze e tradimenti; il futuro è oscuro: «Life is Painful, Nasty and Short….In My Case it Has Only Been Painful and Nasty», scrive Djuna in una lettera. Guardando ai primi anni della sua vita, non è difficile immaginare quali possano essere le ragioni: un padre poligamico che conviveva in casa con entrambe le mogli e tutti i figli, povertà, abusi sessuali, separazioni affettive. Anche quando Barnes si allontanò finalmente dalla famiglia, ormai trasferita a New York, le cose non migliorarono. Trascorse molti anni in povertà e fame, prima di stabilizzarsi e costruire la sua reputazione di giornalista.

Una vita piena di eventi catastrofici, dunque, e tristemente umoristica, come lo è anche la sua poesia.

Davvero il mondo è (ai miei occhi) un posto pieno di persone terribili e sgradevoli. Poi dicono che la mia scrittura è strana e pazza. Perché, santo cielo, ogni vita veramente scritta in realtà una vita minima, è semplicemente spaventosa. […] Comincio a sentirmi come Rimbaud, sto per arrivare al punto in cui non mi interessa nemmeno più provare a scriverne (da una lettera a Emily Holmes Coleman)**.

In novanta anni di vita, Djuna Barnes ha pubblicato un totale di sessantotto poesie: 61 tra il 1911 e il 1929, sette tra il 1938 e l’anno della sua morte, il 1982. La maggior parte sono apparse in supplementi letterari di quotidiani e giornali di letteratura. Alcune apparvero nei suoi libri di prosa. Eppure, Barnes pubblicò un unico libro di sole poesie durante tutta la sua vita, The Book of Repulsive Women (1915), un pamphlet del quale si curò così poco da rifiutare l’autorizzazione a ripubblicarlo. Provocatorie come sempre, le poesie e i disegni raffigurano lesbiche, prostitute, corpi grotteschi e invecchiati, per i quali l’aggettivo “repulsivo”, qui e in altre poesie, si estende a tutte le donne che sempre sono o saranno ripugnanti.

Da The Book of Repulsive Women a Creatures in an Alphabet (1982), i progetti letterari di Barnes sono generi misti, il più delle volte caratterizzati dall’abbinamento di testi e di immagini. Una sfida alle convenzioni e alle convinzioni su sessualità e personalità.

Mi fai ridere. Questa vita che scrivo, disegno e ritraggo è la vita così com’è, e dunque la chiami macabra. Guarda la mia vita. Guarda la vita intorno a me. Dov’è questa bellezza che dovrei perdere? I bei episodi che gli altri descrivono? Non è tutto macabro? Intendo la vita delle persone spogliate delle loro maschere. […] Oggi ci siamo, domani siamo morti. Siamo nati e non sappiamo perché. Viviamo e soffriamo e lottiamo, invidiosi o invidiati. Amiamo, odiamo, lavoriamo, ammiriamo, disprezziamo… Perché? E moriamo, e nessuno saprà mai che siamo nati (risposta a un’intervista di Guido Bruno (Dicembre 1919) ***

Un aspetto chiave per rintracciare le possibili ragioni del perché Barnes abbia dedicato così tanti anni alla poesia e, per contrasto, pubblicato così poco è da rintracciare (tra le diverse ragioni – alcune forse da ritrovare nel rapporto con scrittori come Eliot e Joyce, altre nel suo essere autodidatta, isolata dalla società, in un esilio autoimposto) nel suo particolarissimo processo creativo di scrittura – che originò, tra l’altro, un caos incredibile di note e foglietti difficilmente ordinabili per un editore.

Hank O’Neal, produttore e scrittore, la descrisse in un suo diario in questo modo:

Ha la tendenza a salvare qualsiasi cosa che sia carta, si aggiunga che prende nota su qualsiasi cosa che sia a vista, che poi salva come referenza, fonte, per il futuro. Poesie nella lista della spesa. Tutti questi pezzetti di carta sono ammonticchiati sulla sua scrivania senza ordine apparente. Mi ha detto che ci sono delle buone poesie lì seppellite, sotto la pila di foglietti e appunti, ma ci vorrebbe un cercamine per trovare una qualsiasi cosa.

Barnes scriveva una bozza, poi cominciava nuove versioni su altri foglietti. Con un’ossessione maniacale per la carta, faceva incetta del mezzo per appuntare parole: liste della spesa, carta di giornale, carte per avvolgere. Appuntava ovunque, nasceva una poesia, la scriveva a mano, poi batteva a macchina il testo per poi ricorreggerlo a mano centinaia di volte, ribatterlo a macchina fino a produrre della stessa poesia una sequenza innumerevole di versioni. Scrisse una volta a un amico «Un solo verso mi comporta troppa fatica, letteralmente, decine di pagine per una sola strofa».

Una stessa poesia battuta a macchina veniva di solito copiata in due copie carbone; le correzioni a mano aggiunte successivamente, nella maggior parte dei casi, risultavano poi diverse nelle tre versioni. A volte incorporava alcune delle correzioni a mano, batteva a macchina una nuova versione e aggiungeva ulteriori correzioni.

La poesia degli ultimi anni è umoristica, sardonica. Barnes è tragica e, insieme, arguta. Il cambiamento nella scrittura è notevole: le liriche della maturità sono metafisiche e ciniche, in una combinazione che in pochi altri autori è rintracciabile. La raccolta di libri che le appartenevano e che l’autrice vendette alla Università del Maryland (College Park) sono una testimonianza molto importante del suo interesse per la letteratura metafisica e Rinascimentale in genere. Oltre ai volumi di Eliot, sono stati ritrovati i libri di Donne, la poesia di George Herbert, Ben Jonson, Robert Herrick, per citarne alcuni.

Anche un madrelingua dovrà ricorrere al dizionario per comprendere alcuni termini che la Barnes usa nella poesia dell’ultimo periodo. Ma un accurato studio dei suoi interessi letterari farebbero scoprire che molti di questi vocaboli derivano da una propensione per un linguaggio surrealista. Accanto alle poesie oscure e di difficile interpretazione, poi, Barnes produsse anche poesie di grande liricità e chiarezza, come Discontent, confermando la perfetta intenzionalità e il controllo in quelle altre liriche dal linguaggio oscuro.

Altro tema dell’ultima produzione, che potrebbe stupire i lettori di Nightwood, è quello religioso. Per otto anni, Djuna visse con Thelma Wood, l’amante che ispirò il romanzo Nightwood e che, da dichiaratamente cattolica, possedeva molti libri religiosi in casa. D’altro canto, i periodi storici e gli autori che interessavano la Barnes erano religiosi. Un esempio fra tutti, Dante. Ancora una volta, assumono grande rilievo i volumi consegnati alla Università del Maryland (College Park): Josef Piper, Martin Buber, un volume che raccoglie gli inni di Pentecoste, Tommaso d’Aquino, saggi di cardinali americani, Thomas Merton, tra gli altri.

Oggi stavo leggendo il Vangelo secondo San Giovanni e mi ha colpito il detto di Gesù “Non ho testimonianza” (anche se era circondato), è sempre così con chiunque sappia qualcosa che gli altri non sanno; […] Forse dopotutto non c’è il bene e il male, solo una mancanza di conoscenza; a causa di questo Dio (o qualunque cosa chiamiamo Dio, può perdonare, perché vede molto al di là di noi, come l’artista vede al di là del comune) (da una lettera a Emily Holmes Coleman)****.

Dell’ultima produzione, la tecnica di composizione per multiple versioni è esemplare per la poesia Man cannot purge his body of its theme (dal primo verso) poi intitolata Rite of Spring. Nella collezione della Università del Maryland (College Park) ci sono sei cartelle da 296 pagine che racchiudono centinaia di versioni di questa poesia. La prima poesia nella prima cartella è una versione di tre versi, datata 25 May 1980 con il seguente commento scritto a mano: «Venti anni a cercare di finire questa poesia». Questa versione di tre versi apparve nel Grand Street nel 1982, tre mesi prima della morte di Djuna; rifiutata invece dal «New Yorker» quando William Shawn era editor (tra il 1951-87).

Vengono qui tradotte alcune poesie dell’ultima Barnes, nella speranza che la voce dirompente di questa autrice possa ancora regalarci le visioni incandescenti della «most famous unknown of the century!», come lei stessa si definì.


(Late Published Poems, 1938-82)

Rite of Spring

Man cannot purge his body of its theme

As can the silkworm on a running thread

Spin a shroud to re-consider in.

Rito di Primavera

No non può un uomo il corpo dal suo motivo liberare

come può il baco da seta su un filo libero

filare un sudario dentro per riconsiderare.

(Late Unpublished Poems, ca. 1950-82)

Dereliction (Man cannot purge) (1 June 1971)

Man cannot purge his body of its theme

As goes the silkworm ferrying her thread,

To baste a shroud to metamorphose in

From a silk-proud mouth

But no sanctuary in the fossil’s eye,

Pander, pass by.

Rovina

No non può un uomo il corpo dal suo motivo liberare

Come fa il baco da seta il suo filo transita,

per imbastire un sudario per trasformare

dentro da una bocca soddisfatta di seta

ma non vi è riparo all’occhio fossile,

Magnaccia, passa.

When the Kissing Flesh Is Gone

When the kissing flesh is gone

And tooth to tooth true lovers lie

Idly snarling, bone to bone,

Will you term that ecstasy?

Nay, but love in chancery.

In the last extremity,

Duelling eternity,

Love lies down in clemency,

Compounding rogue fidelity!

Quando la carne che ha baciato svanisce

Quando le carni che hanno baciato svaniscono

e dente a dente i veri amanti giacciono

un latrare senza voglia, osso a osso

Chiameresti tu questa estasi?

Ma no, piuttosto amore in headlock.

Ultima estremità

Duello d’eternità,

Amore sottomesso in clemenza

Aggravata ribalda fedeltà!

Therefore Sisters

Therefore sisters now begin

With time-locked heel

To mourn the vanishing and mewing;

Taboo becomes obscene from too much wooing:

Glory rots, like any other green.

Therefore daughters of the Gwash

Look not for Orpheus the swan

Nor wash

The Traveller his boot

Both are gone.

Dunque sorelle

Dunque ora iniziano le sorelle

Con tacco bloccato a tempo

A piangere l’evanescente e miagolare;

Un tabù diventa osceno se troppo è il corteggiare:

Marcisce la gloria come ogni altro verde.

Dunque figlie del gouache

No, non cerca il cigno Orfeo

Neppure lava

Il suo stivale il viandante

Entrambi svaniscono.


* «Perhaps Muffin is right when he says my book was born, not written. A good book from a woman seems to be pretty much like childbed, which makes me sick to think of, men can scatter books all over the place like their seed» (letter to Emily Holmes Coleman).

** «Really the world is (to my sight) a place filled with terrible and awful people. Then they say my writing is strange and mad. […] I begin to feel like Rimbaud, I am about to the point where I don’t even care to try to write about it anymore» (letter to Emily Holmes Coleman).

*** «You make me laugh. This life I write and draw and portray is life as it is, and therefore you call it morbid. Look at my life. Look at the life around me. Where is this beauty that I am supposed to miss? The nice episodes that others depict? Is not everything morbid? I mean the life of people stripped of their masks. […] Today we are, tomorrow dead. We are born and don’t know why. We live and suffer and strive, envious or envied. We love, we hate, we work, we admire, we despise. . . . Why? And we die, and no one will ever know that we have been born» (12 June 1892 – 18 June 1982, when asked why she was «dreadfully morbid», in an interview by Guido Bruno, December 1919)

**** «I was reading the gospel according to St. John today, and I was struck with the saying of Jesus “I have no witness” (tho he was surrounded), it’s always so with anyone who knows something that others do not; […] Perhaps there is no good and evil after all, only a lack of knowledge; because of this God (or whatever it is we call God, can forgive, because he sees far beyond us, as the artist sees beyond the commoner)» (letter to Emily Holmes Coleman).

di Viviana Fiorentino

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