Ecologia, tecnologia e filosofia
spunto sulla questione della tecnica in Heidegger
Il futuro è già arrivato, hic et nunc. Le sfide odierne per il genere umano sembrano essere quelle rappresentate dai cambiamenti climatici, dal giusto rapporto tra umana tecnica e natura e, come l’altra faccia di una stessa medaglia, dal dilagare in ogni ambito della tecnologia. Eppure, leggendo il filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976), si capisce bene come questi problemi fossero già sul piatto della conversazione filosofica molto tempo prima di esploderci tra le mani. Non solo, si comprende anche come la stessa filosofia possa rivelarsi una possibilità migliore, per agire sulla realtà, dei vuoti appelli oggi diffusi dal mainstream i quali diventano mere valvole di sfogo.
L’approccio di Heidegger per rispondere alla cosiddetta “questione della tecnica” è quello di chi voglia entrare negli oscuri penetrali del pensiero con il fine di portarli alla luce tramite il linguaggio, dal tedesco al greco antico. Per avvicinarci nel modo giusto ai problemi attuali, dunque, è opportuno chiedersi: che cos’è la tecnica? L’opinione diffusa considera la tecnica come un’attività propria dell’umanità, nello specifico è quel mezzo che l’uomo usa in vista dei propri fini. Proprio questa concezione strumentale della tecnica fa sì che l’uomo tenti continuamente di dominarla per i suoi scopi. Ma è lo stesso Heidegger a mettere in guardia su come ciò si riveli una corsa contro il tempo giacché la volontà di dominare la tecnica diventa tanto più impellente e ansiogena quanto più essa minaccia di sfuggire dalle mani dell’uomo.
È nocivo, quindi, identificare la tecnica con uno strumento nelle mani degli uomini. È quando apriamo il nostro esser-ci all’essenza della questione che riusciamo a comprenderla. L’essenza della tecnica allora si configura non come un mezzo, bensì come un disvelare, un avvenire, un rendere disponibile ciò che prima era nascosto. Il disvelamento permea tutte le cose del mondo, non solo l’opera umana: con uno slancio straordinario, che oggi verrebbe appiattito alla categoria di “ecologista”, Heidegger sostiene che ciò il quale sorge di per sé, cioè che si disvela di per sé, come avviene per lo sbocciare di un fiore, o per la natura tutta, ha una dignità preminente rispetto alle produzioni dell’uomo.
Appresa la tendenza disvelatrice della realtà, il vero problema principia con l’affermarsi di quella che il filosofo chiama “tecnica moderna” e che discerne da tutta la tecnica precedente all’evo moderno poiché incomparabilmente diverse. Infatti, a generare l’insensatezza e la distruzione di cui noi, oggi, siamo spettatori conniventi, è il particolare disvelamento compiuto dalla tecnica moderna. La tecnica moderna disvela ciò che è nascosto nelle profondità della natura, dal sottosuolo all’atomo, pretende cioè che l’ambiente fornisca energia in maniera incondizionata. Senza sosta, essa estrae l’energia della natura, al minimo costo. Poco importa che il processo sia dannoso per la natura stessa se questo porta denaro, o meglio, se assicura una qualche ricchezza. Come non leggere nella distopia heideggeriana della tecnica moderna le sorti dell’attuale cambiamento climatico? Delle selvagge deforestazioni? Le proprietà naturali vengono estratte per essere accumulate, diventano mere risorse e, proprio nell’atto di accumulare tali risorse, la natura cessa di essere se stessa per trasformarsi in un fondo. “Accumulare”, “assicurazione”, “fondo”, sono le parole più importanti della questione e non è certo un caso che siano i termini chiave anche del linguaggio economico, in quanto l’accumulo genera “debito”. Questi termini riescono a esplicitare il problema odierno e soprattutto forniscono un’indicazione chiara di dove si dovrebbe operare per risolverlo davvero. Asserisce il filosofo: “Questa nuova prospettiva ci inquieta, ma ciò è necessario; bisogna che ci inquieti il più a lungo possibile”.
La tecnica fagocita tutto, essa pro-voca la catastrofe. Trova la sua forza nelle scienze matematiche, le quali appiattiscono la natura a una dimensione calcolabile e usufruibile, e tuttavia stanno in una condizione di servaggio nei confronti della tecnica, tanto è grande il suo potere. Il parossismo giunge quando, con sgomento, il filosofo si rende conto che lo stesso uomo, considerato inizialmente come il fautore della tecnica, in realtà ne perde il controllo venendo a sua volta usato. La situazione è ribaltata, la tecnica moderna riesce a trasformare anche l’umanità in un fondo a sua disposizione. L’antropologia dell’essere umano come lo conosciamo è in pericolo: egli diventa una risorsa da sfruttare, trasformare, ricollocare e esaurire, come avviene per il resto della natura. L’essenza della tecnica moderna è dunque il gestell, ovvero un’im-posizione sulla totalità del vivente. L’imposizione della tecnica si rivela una gabbia ineludibile in quanto il termine stell indica lo scaffale dove i libri sono contenuti, nondimeno significa “intelaiatura”, all’interno della quale si è costretti a rimare. Chi, oggi, riuscirebbe davvero a immaginare la struttura di un mondo diverso per vivere?
Alla luce di queste considerazioni viene disvelandosi anche la nostra tecnologia che, seppur non trattata da Heidegger, sembra lo strumento perfetto per far rimanere l’essere umano nella sua condizione di fondo impiegabile. Dallo smartphone divenuto appendice onnipresente, ai prossimi chip sottocutanei collegati direttamente con i circuiti neuronali. L’uomo ha creduto ciecamente nello sviluppo della tecnica battezzandola sotto il nome di “progresso”. L’opinione pubblica, le mode, le scienze, l’economia, hanno dato il loro suffragio. La filosofia, invece, è disciplina pensante e adogmatica. Solo essa è in grado di mostrare il vero rapporto tra l’uomo, la tecnica e la natura.