“Fare un film” di Federico Fellini
Mi sarebbe piaciuto fare del cinema nel 1920, avere vent’anni allora, all’epoca dei pionieri, quando tutto era ancora da fare, da inventare. Quando ho cominciato io, il cinema era già un fatto archeologico, aveva già una sua storia, delle scuole, era già iniziato da tempo un processo d’intellettualizzazione, un progetto di elaborazione delle sue regole, dei suoi stilemi, delle sue figure semantiche, dei suoi aggregati strutturali. Alle origini il cinema era invece un fenomeno da fiera, uno spettacolo di piazza e io lo sento sempre un po’ così: qualcosa tra la scampagnata tra amici, l’intrattenimento circense, un viaggio verso una meta da esplorare.(Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, 2015, pp. 168-69)
Questa volta non ci sono immagini in movimento, musica e attori a dare forma alle idee di Federico Fellini, ci sono le parole. Per provare ad entrare nella “testa” del regista romagnolo attraverso le pagine di Fare un film, pubblicato per la prima volta nel 1974, è opportuno utilizzare una lente diversa dal solito per mettere a fuoco, nel modo adeguato, i contenuti.
Metaforicamente, la lente è un breve commento scritto da Liliana Betti nel 1980, una sorta di premessa:
Sarà la coerenza, litigiosa e sempre riluttante, ad obbligare Fellini a occuparsi finalmente del libro, nel tentativo, irreparabilmente sfiduciato, di garantirgli un’autonomia decorosa, e sottrarlo a quella petulante disinvoltura legittimata dalla preesistenza, occasionale, delle parti che lo compongono. Durante questo lavoro, i canoni severi della filologia, della storicità, sono stati traditi da Fellini con l’inconsapevole naturalezza di chi, storicamente, consiste soltanto nella vocazione e nella gioia di commettere simili tradimenti, le stesse che gli consentono sempre di condurre quel gioco prodigioso in cui il trucco, la finzione, l’illusione, la fantasia, sono la realtà che rappresentano. Del resto, a soddisfare attitudini più rigorose resta pur sempre il negativo dal quale Fellini ha sviluppato il positivo di questo libro.
I vitelloni (1953), La dolce vita (1960), 8½ (1963) o Amarcord (1973), quali sono i ricordi più intimi e creativi di un prodigio della macchina da presa come Federico Fellini?
Fare un film, dedicato a Giulietta (Masina), è diviso in capitoli, senza titolo, che vengono utilizzati per scandire periodi, rapporti, aneddoti o riflessioni del passato e del presente di Fellini, cercando di mantenere un ordine cronologico e aiutando il lettore a muoversi toccando con mano i racconti. Il regista parte da una tematica insolita, la sensazione che prova quando si trova in ospedale, precisamente nel reparto di radiologia, per collegare racconti legati alla sua infanzia che nascono da telefonate a vecchi amici e volti familiari, passando così in rassegna le vicende che hanno segnato il suo passato, includendo la (non) sua Rimini. Una narrazione che restituisce al lettore il mondo e le suggestioni del regista, così da insinuare continue connessioni con gli elementi del passato e soprattutto dei suoi film. Le pagine scorrono e, passo dopo passo, il cammino del regista prende forma: la fine del liceo, la passione per il giornalismo, la prima volta al cinema, l’arrivo a Roma e il rapporto con Rossellini.
Il mio primo ricordo di un film risale, credo, a Maciste all’inferno. Stavo in braccio a mio padre, la sala era piena, faceva caldo e spruzzavano un antisettico che grattava in gola ma anche stordiva. In quell’atmosfera un po’ oppiata ricordo le immagini giallastre con tanti bei donnoni. Poi ricordo le diapositive dai preti, in uno stanzone con le panche di legno, immagini in bianco e nero di chiese, Assisi, Orvieto. Ma del cinema ho in mente soprattutto i manifesti, quelli mi incantavano.
Seguono con un flusso puntuale e ritmico gli aneddoti che contornano film come Lo sceicco bianco (1952) e La strada (1954) oppure le conversazioni con gli attori e con i produttori, delineando le diverse sfaccettature che prendono vita dietro la macchina da presa. Poi continuano con Roma, i disegni e gli schizzi, la figura del clown, il rapporto con Giulia Masina, le influenze letterarie, le interviste e il punto di vista negativo verso la televisione.
Che cos’è Roma? Posso tentare di dire che cosa penso quando sento la parola Roma. Me lo sono spesso domandato. E più o meno lo so. Penso a un faccione rossastro che assomiglia a Sordi, Fabrizi o la Magnani.
E ancora:
Un giudizio sulla mia esperienza in televisione? In complesso mi è sembrata deludente e singolarmente mediocre: da una parte la televisione ti preclude di fare del cinema, o perlomeno ne riduce notevolmente le possibilità sia espressive, sia produttive e di organizzazione; dall’altra ti offre come un mezzo dai connotati e dalle finalità indistinti, esitanti, imprecisi, per cui l’esperimento non ha neanche la seduzione e l’interesse della novità, di una qualsiasi ricerca. Insomma credo di aver sbagliato a lasciarmi tentare a fare televisione; mi sono reso conto che è necessario prendere in considerazione, esaminare, soppesare una tale serie di condizionamenti che alla fine non senti più nessun desiderio di provare ancora.
Un volume colmo di spunti che non può mancare nella libreria di un appassionato di Fellini, ma soprattutto di cinema. Il regista, in svariati passaggi, palesa tutta la sua stima e riconoscenza verso la settima arte, ma il lettore è consapevole che è proprio quest’ultima ad essere in debito con lui. Italo Calvino in un breve saggio del 1974, apparso per la prima volta come prefazione a Quattro film di Federico Fellini, scriveva:
Il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta. Nei tempi stretti delle nostre vite tutto resta lì, angosciosamente presente; le prime immagini dell’eros e le premonizioni della morte ci raggiungono in ogni sogno; la fine del mondo è cominciata con noi e non accenna a finire; il film di cui ci illudevamo d’essere solo spettatori è la storia della nostra vita.
Centosettantasette pagine che delineano l’itinerario di un viaggio profondo, intimo e raffinato che non lascia spazio alle banalità. Ogni racconto, anche breve, diventa prezioso, stimolante e collegabile a tematiche più ampie, incuriosendo il lettore e alludendo all’universo filmico felliniano.
In conclusione, Fare un film è un oggetto da maneggiare con cura, da prendere con le pinze, perché come per il fantasioso immaginario cinematografico del regista, anche le parole scritte, provocatorie e suggestive, possono trasformarsi in racconti di finzione, in feticci. Ma non è proprio attraverso queste perplessità e dubbi, il modo migliore per cercare di comprendere Federico Fellini?