Fausta Cialente: uno scorcio sulla scrittura femminile novecentesca
Pochi sono gli intellettuali che, negli anni, si sono confrontati con la scrittura delle donne: esigue sono le figure femminili che vengono ricordate oggigiorno (Sibilla Aleramo, Alda Merini, Ada Negri, Matilde Serao: chi altro?), e questo accade perché la memoria delle loro parole è stata volutamente occultata e nascosta ai lettori, soprattutto perché le donne non venivano ritenute abbastanza capaci di saper scrivere come uno scrittore, non sufficientemente in grado di trasmettere le stesse sensazioni tramite le parole che utilizzavano. Parliamo di una vera e propria subordinazione della scrittura femminile nei confronti di quella maschile sulla base di criteri canonici scrittori valsi per moltissimi anni: criteri basati sullo stile, sul pathos, sull’etica di un’opera. Le donne, secondo la maggior parte dei critici, non facevano parte della casta inarrivabile degli scrittori, ma semplicemente si dilettavano con dei romanzi d’amore, relegati ad un pubblico di bassa lega (anch’esso formato da donne, naturalmente).
Nonostante i pregiudizi e le difficoltà che le scrittrici hanno dovuto affrontare per arrivare a possedere quella dignità che era stata loro negata, nel ‘900 sembra esserci una sorta di rivalsa, di riscatto: è proprio in questo secolo che alcuni dei più importanti personaggi letterari del tempo sono donne. Donne che vendono milioni di copie dei loro libri, che diventano pilastri intellettuali del secolo breve, che si fanno portatrici di battaglie per rivendicare la loro libertà intellettuale diventando scrittrici affermate e agognate dagli editori più importanti: parliamo di personaggi come Sibilla Aleramo, Alba De Céspedes, Anna Banti e, soprattutto, Fausta Cialente.
Figura decisamente poco studiata e conosciuta, Cialente rappresenta la donna-scrittrice che si crea da sé, un demiurgo muliebre che crede fermamente nella propria libertà letteraria ed intellettuale, decidendo quindi di affermarsi in una società che non è pronta ad accogliere le scrittrici per conferire loro la giusta considerazione e dignità artistica. Fausta Cialente (1898-1994) nasce come scrittrice autodidatta, diventando in seguito una giornalista radiofonica durante il periodo della Resistenza (una delle esperienze più determinanti e centrali della sua vita), collaborando inoltre anche con vari giornali dell’epoca tra cui “L’Unità”, “Noi donne” e “Il contemporaneo”. La sua è decisamente una formazione di tipo cosmopolita e multiculturale: si trasferisce ad Alessandria d’Egitto appena ventenne (passando per Cagliari, Trieste, Firenze, Milano), in seguito al suo matrimonio con Enrico Terni, e partecipa alle vicende italiane come figura intellettuale attraverso il giornalismo ed i suoi numerosi racconti. Malgrado tutto, Fausta, ovunque vada, si sente una straniera, senza radici né casa: la sua multiculturalità è contemporaneamente nomadismo, che la porta ad affrontare numerosi viaggi senza mai insediarsi completamente in nessun luogo, senza appartenere a nessuna terra. Nonostante non abbia una dimora che possa essere definita “sua”, Cialente continua a scrivere romanzi, racconti, sceneggiature cinematografiche: il riconoscimento più importante arriva nel 1976 col premio Strega, grazie al romanzo “Le quattro ragazze Wieselberger”, attraverso il quale Cialente racconta due storie: quella della sua famiglia, dunque una storia privata, che si intreccia con la storia collettiva coeva, quella della borghesia italiana di inizio ‘900, colpevole di aver innescato quella scintilla bellica che si sarebbe poi tramutata in conflitto mondiale.
Un altro premio vinto è quello dei Dieci, presieduto da Massimo Bontempelli, col romanzo Natalia, del 1930. Secondo la mia opinione, è soprattutto in quest’opera che si riesce a percepire la maestria letteraria di questa scrittrice: Natalia è un romanzo che si basa sulla dicotomia finzione-realtà, una storia che galleggia in un microcosmo fantastico e surreale, una menzogna che ha parvenza di realtà. Non è un caso che, in questo particolare contesto, si parla di realismo magico per quanto concerne la sua scrittura (si tratta tuttavia di un termine coniato e affibbiato soprattutto a Bontempelli, maestro di questa particolare tendenza). In questo romanzo entriamo in contatto con un’auto-narrazione fantastica della realtà fintanto che la protagonista si trova nel suo spazio d’appartenenza, nel suo nucleo onirico: secondo il pensiero della scrittrice, difatti, la narrazione è un qualcosa che non può avere a che fare con la realtà che ci circonda, in quanto la nostra personale auto-narrazione avviene sempre ad un livello che appartiene alla matrice del fantastico. E’ dunque presente una realtà duplice, una visione che non è più così oggettiva e reale, ma si presta al sogno, alla dimensione soggettiva del protagonista che decide di vivere in un’oscillazione perpetua, in uno spazio oltremondano personale.
Perché, dunque, è importante conoscere e riscoprire (per i pochi che erano a conoscenza del suo percorso letterario) una figura femminile come Fausta Cialente? Nonostante lei appartenesse ad una famiglia benestante e privilegiata, nei suoi scritti ha sempre voluto raccontare le difficoltà e la miseria dei più deboli, gli sfruttamenti, la guerra e il dolore che si intrecciavano continuamente con la sua quotidianità. Nelle sue numerose opere, tra cui ricordiamo Cortile a Cleopatra (1936), Ballata Levantina (1960), Marianna (ripubblicato negli anni ’60) e la già citata Natalia (1930), si percepisce sempre una peculiare sensibilità che connota il suo stilema: la dolcezza e la leggiadria delle sue parole sono come un fiore raffinato che viene lentamente estirpato e sradicato da ciò che è dolore, guerra, da quelle tematiche sociali drammatiche a Cialente tanto care, mantenendo sempre, però, la delicatezza e la pudicizia che la caratterizzano e che la rendono una delle personalità più particolari ed avvincenti (seppur rimasta nascosta) di questo secolo.