Frammenti disomogenei su “Clessidra” di Danilo Kiš
Vorrei dare qualche breve cenno su un autore ingiustamente poco noto, sperando che possa spingere anche soltanto un altro lettore, magari incuriosito da queste sparse riflessioni, a volerlo scoprire.
Danilo Kiš nasce a Subotica, città di confine nell’allora Iugoslavia e nell’attuale Serbia, il 22 febbraio 1935. Il padre è un ebreo della vicina Ungheria, la madre, Milica Dragičević, è invece una cristiana ortodossa nata in Montenegro. Questa doppia radice culturale e religiosa si esprime anche in una duplice identità linguistica: da un lato il serbo croato, lingua natia che Kiš adotta nella scrittura e che insegnerà più tardi in Francia, dall’altra l’ungherese, lingua paterna, inadatta però a descrivere il padre stesso.
Il padre infatti è figura centrale della produzione dell’autore, protagonista della trilogia autobiografica con il nome di Eduard Sam. Vale la pena soffermarsi sul nome di quello che è il personaggio centrale di Giardino, cenere, Dolori precoci e Clessidra, benché nell’ultimo romanzo del trittico si spersonalizzi, riducendosi alle sole iniziali, E. S.
Se Eduard è il vero nome del padre di Danilo Kiš, Sam in serbo-croato è traducibile con “solo”; Samuele, di cui Sam sembrerebbe un’abbreviazione, deriva invece dall’ebraico Shemu’el, composto da shem “nome” e da El, che sta per Elohim, ovvero “Dio”. Il nome del protagonista potrebbe quindi essere letto come “il suo nome è Dio”, anche se una diversa interpretazione dell’aramaico lo renderebbe più traducibile come “il Signore ha ascoltato”. Il profeta biblico Samuele, inoltre, è giudice per la monarchia teocratica. Da ultimo non si può trascurare il fatto che il nome puntato rimandi all’es freudiano. Il protagonista sembra quindi racchiudere e anticipare la colpa, il raziocinio, gli impulsi, la religione, il silenzio, il potere, l’autodistruzione, la solitudine e la violenza caratteristici dell’ultimo romanzo di questa straordinaria trilogia.
Da una parte E.S., cinquantatré anni, coniugato, padre di due figli, riflette, fuma, lavora, si rade con un rasoio di sicurezza, e dall’altra, accanto a lui, anzi in lui, in qualche punto al centro del suo cervello, come in un sogno o in stato di dormiveglia, vive un altro E.S., che è e non è Me, giacché, mentre l’uno si rade, con un movimento preciso della mano che non trema, l’altro, ridotto alle dimensioni di un embrione, fa cose del tutto diverse, si occupa di una faccenda completamente sconosciuta ma pericolosa […].
Clessidra (1972, tradotto in Italia per Adelphi solamente nel 1990 da Lionello Costantini) si apre con un prologo sospeso, scandito da un susseguirsi di verbi come ondeggiare, tremolare, oscillare, tutto giocato intorno ad alcune immagini ricorrenti e antitetiche: ombra, oscurità, occhio, luce, fiamma. Ogni cosa sembra colta in un continuo moto apparente, in una precarietà esistenziale e anche gli oggetti più immobili sono descritti con minuzia:
A sinistra, contro la lampada, blocchi di carta a quadretti; accanto a essi un giornale ripiegato in due, quasi nel mezzo del tavolo; all’estremità destra, due o tre numeri di una rivista unta e un libro dalla copertina nera, le cui impressioni in oro sembrano della stessa materia della fiamma; nascosta dall’ombra dello specchio, un poco al di sopra della superficie del tavolo, quasi a librarsi in aria, una sigaretta fumata a metà. Attraverso vie invisibili, il fumo arriva alla lampada e sfugge, azzurrognolo, attraverso il cilindro.
Una mano che si avvicina alla fiamma.
Gli elenchi, per mia somma gioia inframmezzati dal punto e virgola, sono una costante della narrazione, e contribuiscono a quell’esattezza delle descrizioni che l’autore dissemina in ogni capitolo, talvolta riportando le misure precise degli oggetti, talvolta ricorrendo a un’aggettivazione così accorta e tenace nell’individuare un odore o un rumore da riuscire a ricrearlo perfettamente. Un’ossessione per il particolare che potrebbe essere sintetizzata da quella stracitata apocrifa massima «Dio è nei dettagli» di Flaubert, autore che Kiš tanto analizza nei suoi saggi, raccolti in Homo poeticus (Adelphi, 2009). Uno sguardo – ma anche un olfatto e un udito – così sviluppato e acuto da poter essere quasi essere accostato a quello degli scrittori dell’école du regard, dalla quale però Kiš si distanziò per la capacità di rivestire di una dimensione poetica gli oggetti, capacità non riscontrata a suo avviso negli autori di quella corrente.
Che cosa fece E.S. prima di passare nel corridoio?
Gettò un rapido sguardo dal finestrino della prima classe.
Che cosa vide?
La pianura coperta di neve a perdita d’occhio, neri tratti di campi arati che emergevano qua e là dalla neve, un albero spoglio e nodoso sui cui rami si vedevano appollaiati neri corvi intirizziti.
Passato in seconda classe, che cosa percepì?
Dapprima odori.
Quali?
Di piedi sporchi, di galline bagnate, di pastrani militari, di cuoio fradicio, di stoffa inzuppata, di scarpe imbevute d’acqua, di cipolla, di tabacco forte, di sospiri d’intestini.
Chi vide?
Soldati, contadini, guardie di finanza, guardie forestali, ferrovieri, commercianti, borsari neri.
Quali oggetti?
Uniformi, bauli di legno, ceste di vimini, fucili, baionette (nei loro foderi), scarponi da soldato, mollettiere, cinghie, pollame, carte, coltelli.
Quali colori?
Grigio sporco, verde oliva, giallo verdastro, rosso stridente, bianco sporco, rosso ruggine, grigio ferro.
Che cosa gli rivelò subito che il suo arrivo era stato notato?
Il coltello della lama ricurva di un contadino si bloccò a mezza strada fra il lardo con paprica e i baffi unti.
Chi si mise a osservalo con la più viva curiosità?
Un’oca il cui lungo collo spuntava da un cesto di vimini, che lo guardò con i suoi occhi rossi, girando la testa ora da un lato ora dall’altro.
Kiš è un maestro della polifonia e sfrutta tutta una tastiera di stili nei capitoli, dalle asettiche nomenclature, che si alternano tra loro: cinque appunti di un folle, quattro procedimenti istruttori, quattro scene di viaggio tra l’urto del vento e le bufere di neve rivelate da un narratore obiettivo, due interrogatori del teste, una lunga lettera finale. Colonna portante sono i procedimenti istruttori, perché tutto viene scritto come fosse un interrogatorio messo a verbale dalla polizia. È attraverso questo continuo dialogo che prende forma un mondo di piccole storie, vite meschine, vittime sacrificali e aguzzini, suicidi, torture e crudeltà, errori, limiti umani, torti insignificanti e colpe ataviche sullo sfondo delle persecuzioni razziali.
E in questo incalzante scambio l’autore cade in un ipercorrettismo straordinario, perché estremizza la precisione delle risposte dell’imputato, dettagliatissimo nella ricostruzione di fatti avvenuti anche decenni prima, creando pagine di rara bellezza e di completo straniamento: le fotografie contenute in una scatola di cartone sono esposte con una tale attenzione da ricrearsi nella mente del lettore più vivide di quanto non sarebbero se le potesse vedere; i sogni e gli incubi di E. S. tratteggiati con una concretezza materica; gli ambienti principalmente chiusi – una camera, un vagone del treno, una cucina stretta, il retro di una casa –, resi asfissianti e tangibili dalle parole tanto selezionate; le esistenze delle persone citate condensate in striminzite e tuttavia esplicite frasi, in una sorta di enciclopedia dei morti – titolo peraltro di una sua raccolta di racconti del 1983.
Kiš, consapevole dell’illusione dell’onniscienza e della perdita della totalità e della completezza del mondo imbarbarito, cerca di restituirlo attraverso dei frammenti. Il narratore è inattendibile. Non si arrabbi lo scrittore se mi viene in mente un riferimento tratto proprio da un’autrice ascrivibile al milieu del Nouveau roman da cui si distanziava: Nathalie Sarraute scrive infatti nel febbraio 1950 su «Temps modernes» L’età del sospetto, in cui afferma che «autore e lettore non solo diffidano del personaggio romanzesco ma, per suo tramite, diffidano l’uno dell’altro. Era il terreno d’intesa, la solida base a partire dalla quale potevano, in uno sforzo comune, lanciarsi verso nuove ricerche e nuove scoperte. È diventato il luogo della loro reciproca diffidenza, la terra devastata su cui si fronteggiano»; e continua, citando Jacques Tournier: «solo il documento importa, preciso, datato, verificato, autentico». Kiš ne è consapevole, e pertanto attraverso una serie di documenti fittizi revisiona e inventa le storie nella Storia, mendace nei confronti delle sue fonti, piega a suo piacimento le testimonianze, raggira il lettore sulla verità della sua narrazione, lo convince del falso storico per farsi seguire (Nathalie Sarraute, peraltro, nello stesso testo ricordava la tendenza a ridurre i nomi di battesimo dei personaggi alla sola iniziale – facendo riferimento a K. di Kafka o al H. C. E. joyciano).
In un pastiche di realtà e finzione, tra pagine di astrologia, riflessioni talmudiche e mimesi di orazioni funebri, Kiš affabula e inganna, seduce con un erotismo triviale, falsifica gli eventi come E. S. falsifica postdatandolo il biglietto del treno, creando un romanzo in cui è facile – e vale la pena – perdersi.
Consapevole del fatto che sono incapace di attentare alla mia vita, perché mi ripugna il mio corpo, mi ripugnano la morte, il sangue e tutti gli accessori della morte, corda, rasoio, arma, ho sentito, poco fa, quando mi sono diretto verso il villaggio, accompagnando mio figlio alla porta, ho sentito a un tratto come un’illuminazione che mi svelava la possibilità di liberarmi senza dolore di tutte le paure e di tutte le preoccupazioni, senza d’altra parte dovermi esibire in uno spettacolo granguignolesco.