Frammenti scarsi su Barthes e Sontag
Barthes è l’ultimo importante prosecutore del grande progetto letterario nazionale inaugurato da Montaigne: l’io come vocazione, la vita come lettura dell’io. Questa impresa fa dell’io il luogo di ogni possibilità, un io avido, che non teme le contraddizioni (niente deve essere perduto, tutto può essere guadagnato), e fa dell’esercizio della coscienza lo scopo più alto della vita, perché solo divenendo pienamente coscienti si può essere liberi. La tradizione utopica specificamente francese sta proprio in questa visione della realtà ritrovata, redenta, trascesa dalla coscienza; una visione della vita della mente come vita di desiderio, di piena intelligenza e piacere – una tradizione molto diversa, ad esempio, da quella di profonda serietà morale tipica della letteratura tedesca o russa. Era inevitabile che l’opera di Barthes si concludesse con l’autobiografia. (Susan Sontag)
Il 26 marzo 1980 Susan Sontag scrive quattro parole sul suo diario: «Roland Barthes è morto». Una settimana dopo annota:
Barthes
Era definito un critico, in mancanza di un’etichetta migliore; e io stessa ho detto che è stato “il più grande critico mai apparso…” Ma merita il più illustre appellativo di scrittore.
Tutta la sua opera è un tentativo immenso, complesso ed estremamente discreto di auto-descrizione.
Alla fine è diventato un vero scrittore. Ma non è riuscito a liberarsi delle sue idee.
Il rapporto di stima e amicizia tra i due meriterebbe un approfondimento più ragionato di quanto non sia questo articoletto in cui vogliamo soltanto fare un piccolo cenno, dare uno spunto di riflessione a chi conosce l’una o l’altro, entrambi o, soprattutto, nessuno dei due. Per ora limitiamoci a ricordare come Sontag nel 1972, poco prima di partire per il suo viaggio in Oriente, annoti sul suo diario «consultare Barthes sul Giappone» – L’impero dei segni è del 1970 – o che entrambi a distanza di qualche anno approfondiscono, affascinati, il tema della fotografia: escono infatti nel 1977 i saggi On photography di Susan Sontag e nel 1980 Barthes pubblica La Chambre claire. Note sur la photographie, un tassello importante per comprendere tutto il suo percorso di studioso eclettico e interdisciplinare.
Roland Barthes, come ricorda anche la stessa Sontag, amava la scrittura breve e quasi aforistica: la sua opera che ha conosciuto maggiore diffusione tra il grande pubblico, spesso purtroppo soggetta a una lettura banalizzante, è probabilmente la riduzione del corso tenuto a l’École pratique des hautes études dal 1974 al 1976, conosciuta come Frammenti di un discorso amoroso. Questa sua attenzione al piccolo, al dettaglio, si può riscontrare anche in Roland Barthes par Roland Barthes (1975). Molto curiosa la lista delle cose che gli piacciono e quella delle cose che non gli piacciono. D’altronde, una citazione altrettanto abusata e un po’ apocrifa di un maestro francese, Flaubert, si potrebbe tradurre alla buona con «Dio è nei dettagli». Forse, al di là di queste convergenze e anche all’infuori delle scienze umane, il dettaglio come forma ontologica di rappresentazione del mondo è un elemento ricorrente della società contemporanea. Insomma, ci confida Barthes:
Mi piace: l’insalata, la cannella, il formaggio, i condimenti, le paste di mandorle, l’odore del fieno tagliato (mi piacerebbe che un «naso» fabbricasse un profumo simile), le rose, le peonie, la lavanda, lo champagne, le posizioni leggere in politica, Glenn Gould, la birra freddissima, i cuscini piatti, il pane tostato, i sigari Avana, Haendel, le passeggiate moderate, le pere, le pesche bianche o di vigna, le ciliegie, i colori, gli orologi, le penne stilografiche, le piume per scrivere, le portate intermedie, il sale crudo, i romanzi realistici, il piano, il caffè, Pollock, Twombly, tutta la musica romantica, Sartre, Brecht, Verne, Fourier, Ejzenštejn, i treni, il vino Médoc, il Bouzy, avere degli spiccioli, Bouvard e Pécuchet, camminare coi sandali di sera nelle stradine del Sud-ovest, la curva dell’Adour vista dalla casa del dottor L., i Marx Brothers, il serrano alle sette del mattino mentre si esce da Salamanca, ecc.
Non mi piace: i cagnolini lulú bianchi, le donne coi calzoni, i gerani, le fragole, il clavicembalo, Miró, le tautologie, i cartoni animati, Arthur Rubinstein, le ville, i pomeriggi, Satie, Bartok, Vivaldi, telefonare, i cori di bambini, i concerti di Chopin, le bransles della Borgogna, le danze rinascimentali, l’organo, M.-A. Charpentier, le sue trombe e i suoi timbali, il politico-sessuale, le scene, le iniziative, la fedeltà, la spontaneità, le serate con gente che non conosco, ecc.
Il 21 febbraio del 1977 anche Susan Sontag – c’era da aspettarselo, dato il titolo di questo articolo – appunta sul suo taccuino, volendo forse seguire lo spunto dell’amico:
Cose che mi piacciono: gli incendi, Venezia, la tequila, i tramonti, i bambini, i film muti, l’abitudine, il sale grosso, i cappelli a cilindro, i grandi cani a pelo lungo, i modellini di navi, la cannella, i piumoni di piume d’oca, gli orologi da tasca, l’odore dell’erba appena tagliata, il lino, Bach, i mobili Luigi XIII, il sushi, i microscopi, le stanze spaziose, i progressi, gli stivali, bere acqua, le caramelle di sciroppo d’acero.
Cose che non mi piacciono: dormire da sola in un appartamento, il clima freddo, le coppie, le partite di football, nuotare, le acciughe, i baffi, i gatti, gli ombrelli, essere fotografata, il sapore della liquirizia, lavarmi i capelli (o farmeli lavare), portare un orologio da polso, tenere una conferenza, i sigari, scrivere lettere, fare la doccia, Robert Frost, la cucina tedesca.
Cose che mi piacciono: l’avorio, i maglioni, i disegni architettonici, la pizza (il pane romano), soggiornare in albergo, le graffette, il colore blu, le cinture di cuoio, stilare liste, i vagoni letto, pagare i conti, le grotte, guardare il pattinaggio sul ghiaccio, fare domande, prendere il taxi, l’arte del Benin, le mele verdi, i mobili da ufficio, gli ebrei, gli eucalipti, i temperini, gli aforismi le mani.
Cose che non mi piacciono: la televisione, i fagioli stufati, gli uomini pelosi, i libri tascabili, stare in piedi, i giochi di carte, gli appartamenti sporchi o disordinati, i guanciali piatti, espormi al sole, Ezra Pound, le lentiggini, la violenza nel cinema, farmi mettere le gocce negli occhi, il polpettone, le unghie smaltate, il suicidio, leccare le buste, il ketchup, i traversins, le gocce per il naso, la Coca-Cola, gli alcolici, fotografare.
Cose che mi piacciono: le percussioni, i garofani, le calze, i piselli crudi, masticare la canna da zucchero, i ponti, Dürer, le scale mobili, il clima caldo, lo storione, le persone alte, i deserti, le pareti bianche, i cavalli, le macchine per scrivere elettriche, le ciliegie, i mobili in vimini/rattan, sedermi a gambe incrociate, le strisce, le grandi finestre, l’aneto fresco, leggere ad alta voce, andare in libreria, le stanze poco arredate, ballare, Ariadne auf Naxos.
Negli elenchi di Sontag, come si vede più lunghi, positivo e negativo si alternano. Per citare ancora Barthes – che già nel 1973 scriveva Le plaisir du texte, mostrando una predilezione e una forte sensibilità per il concetto di piacere:
Mi piace, non mi piace: il che non ha nessuna importanza per nessuno; il che, apparentemente non ha senso. E però tutto questo vuol dire: il mio corpo non è lo stesso del vostro. Così, in questa schiuma anarchica di gusti e disgusti, specie di tratteggiamento distratto, si disegna a poco a poco la figura d’un enigma corporeo, che chiama complicità o irritazione.
A noi invece, caro Roland, le tue liste ci interessano parecchio. Di più: ci piacciono. Ecco da dove iniziare la nostra.
di Felice Pisolino
PS: Da Lessico famigliare (1963) di Natalia Ginzburg: «Le cose che mio padre apprezzava e stimava erano: il socialismo; l’Inghilterra; i romanzi di Zola; la fondazione Rockfeller; la montagna, e le guide della Val d’Aosta. Le cose che mia madre amava erano: il socialismo; le poesie di Paul Verlaine; la musica e, in particolare, il Lohengrin, che usava cantare per noi la sera dopo cena».