Gli eroi innamorati | su “Ride your Wave” di Masaaki Yuasa
L’ultimo lungometraggio di Masaaki Yuasa, Ride your wave, è una storia d’amore singolarmente semplice e anche stilisticamente innocua per gli standard dell’autore, se ci si ferma al piano formale. In gioco c’è però ben altro, se si obbedisce al significato esemplare, ovvero morale, dell’opera: un controcanto molto chiaro e conciso dell’itinerario artistico e spirituale di Yuasa, cui si è dedicata molta attenzione su questo blog.
L’opera di Masaaki Yuasa è un punto di riferimento imprescindibile per il discorso su mimetismo e maestria. La sua sensibilità coniuga un’esatta percezione della natura mimetica del desiderio e la torsione positiva che da essa può scaturire nella relazione di maestria, il cui complesso equilibrio è stato sviscerato con assoluta completezza da Matteo Bisoni negli articoli su Ping Pong – the animation. Vediamo ora come la storia d’amore di Hinako e Minato, lei surfer e aspirante biologa marina, lui giovane pompiere in una località di mare, ritagli all’interno di quella stratificata dinamica uno spazio più semplice, che non aspira a una dimensione romanzesco-rivelativa ma, forse più modestamente, esemplare-edificante.
Minato, fidanzato di Hinako, è una versione molto più luminosa e semplice della figura dell’eroe che fu diversamente centrale anche in Ping Pong. Minato è l’eroe perfetto, che non viene mai meno al proprio mandato di cura dell’altro. Pompiere coraggioso, cuoco eccellente, fidanzato perfetto. Hinako ne è più che innamorata: la sua giovane vita, ancora confusa e indecisa quanto al futuro, poggia interamente sulla saldezza di lui, che promette di essere sempre al suo fianco.
Diversamente da quel che si potrebbe credere, il complesso del salvatore non viene a Minato da un superuomismo adolescenziale o da una malriposta educazione iper-responsabilizzante. Anche qui c’entra la maestria: da piccolo rischiò di annegare e fu salvato da una bambina più giovane di lui, e da allora cerca di seguire le orme di quella figura che in un tempo ancestrale e mitico gli si rivelò nel fulgore esemplare dell’eroismo. È Yoko, la sorella di Minato, a raccontare a Hinako questa vecchia storia – lei che, alla morte del fratello, obbedendo analogamente alla logica della maestria, erediterà il suo sogno di aprire una caffetteria.
Già: perché a un certo punto Minato muore, probabilmente annegato, ricorsivamente e forse ironicamente. Hinako impazzisce per il dolore: credendo di vederlo apparire nell’acqua, quando canta una canzone legata alla loro storia, vaga per la città insieme a un pupazzo gonfiabile dentro cui immagina che viva il suo fantasma, perfettamente a suo agio, sembra, con la nuova veste delirante della loro relazione. Le basta intonare il motivetto della canzone, e Minato si palesa per salvarla dal suo dolore – proprio come aveva promesso che sempre avrebbe fatto.
A un certo punto il miglior amico ed ex collega kohai di Minato, Wasabi, decide saggiamente di intervenire – spinto, oltre che da una ragionevole preoccupazione per la salute mentale della ragazza, anche dal fatto che, grazie alla mediazione del senpai Minato, ha maturato per Hinako una forte attrazione. Prima che i protagonisti si fidanzassero, Minato e Wasabi contemplavano spesso insieme la figura maestosa di Hinako che cavalcava le onde, dal palazzo dove si esercitavano per diventare pompieri. Wasabi era particolarmente colpito dal fatto che quell’apparizione silenziosa fosse da Minato chiamata con l’appellativo di “sua eroina”. Già nel primo incontro dei due futuri fidanzati si era palesata questa strana doppiezza: Minato fin da subito aveva chiamato Hinako col titolo di “eroina”, poi mai più citato; e con il tempo, Minato era diventato l’eroe di Hinako, supportandola e standole accanto, come si è detto, in ogni circostanza, anche dopo la morte.
L’eroe, tradizionalmente, è il tipo umano più sublime, raffinato nelle sue migliori caratteristiche indoliche da una grazia di origine divina. Ciò che ogni semplice umano desidera per sé stesso è la trasfigurazione in eroe, mito ancestrale della nostra cultura degenerato – o sviluppato, a seconda delle sensibilità – nel culto del superuomo (1). Dell’eroe – colui che affina la propria sostanza umana nel suo luogo d’elezione – non ci si può non innamorare, e Hinako che sfida le onde sulla sua tavola da surf è come una naiade delle acque, dove brilla nella sua forma più smagliante, quasidivina: immagine di un inizio ancestrale incarnato in una figura mitologica. Hinato, conseguentemente, se ne innamora – dell’illusione-Hinako, della dea-Hinako, ma i lettori sgamati possono rinfoderare i sorrisi saputi: non ci sarà crollo delle illusioni, o leopardiani di ogni luogo e tempo, a soddisfare i loro palati vizzi. In grazia della prima apparizione della dea-Hinako, di cui si dirà a breve, Minato ha trovato infatti il proprio luogo d’elezione: la forma umana che egli dovrà assumere, secondo il comandamento d’altri di cui è informata la sua esistenza, per affinare le proprie migliori caratteristiche e divenire eroe, semidio. Hinako non può tradire l’immagine ideale di sé che Minato custodisce, semplicemente perché quella che lui ha visto non è (soltanto) lei, ma la sua forma (già) divina, il suo dàimon indefettibile, di cui parla abbondantemente James Hillman sulla scorta di Platone (2). Se si ha un po’ di fede e si abbandona il nostro rassicurante causalismo, esso è la forma destinale e perfetta di noi stessi che ci attende alla fine del sogno, già preparata al momento della nostra venuta al mondo. Hinako, che è nell’acqua come nel suo proprio elemento, non riesce però a vedere, nonostante e forse a causa della vicinanza di Minato, il divino che è già in lei, il suo proprio dàimon. Come potrà dunque divenire ella stessa un’eroina, a imitazione del suo amato? Finché Minato è accanto a lei, il dàimon della ragazza è soffocato dal peso della mediazione. La strada del perfezionamento è già aperta per il ragazzo, mentre quella di Hinako è ancora incerta, impervia e selvatica – eppure, se si guarda bene, essa è già lì, aperta, nello stesso luogo in cui Minato trovò la propria.
La morte di Minato, privando Hinako della presenza salvifica di lui, ha sul lungo periodo – quando il fantasma nel pupazzo gonfiabile finisce per dissipare i suoi influssi benefici – l’effetto di risvegliare la ragazza dal suo torpore. La sua strada improvvisamente si fa manifesta e sgombra, e proprio grazie alla mediazione ingombrante dell’amato che si stava per lasciare andare. Hinako scopre infatti, secondo un classico espediente di agnizione, che fu proprio lei a salvare il piccolo Minato dalle onde, quando erano bambini, aprendo al fanciullo la strada della vocazione eroica. Ella apparve allora agli occhi di Minato davvero come l’eroina, la forma umana destinale e perfetta della salvatrice – e prima che ella stessa conoscesse alcunché di sé stessa e del proprio futuro. Ella era già stata (per lui) quella sua forma eminente, di cui il dàimon è seme. Hinako era già (la futura) sé stessa, ma per capirlo ella ha avuto bisogno della maestria di Minato, l’amato, che le ha mostrato come ella sarebbe potuta essere-già veramente, ricordandole il suo dàimon-destino, indicandole la direzione del suo perfezionamento ricorsivo. E questo senza condizionarla con una parola stregonesca, che commini un destino alieno con la violenza di un progetto o di una suggestione immaginale: Minato non ha detto mai a Hinako, per tutto il tempo che furono fidanzati, che lei era stata la sua salvatrice. Sublime discrezione di Minato: era lei a dover (ri)scoprire la propria strada destinale, nell’inizio dove lui l’aveva trovata il giorno che si erano incontrati.
Un film come questo, a un pubblico occidentale, corre innanzitutto il rischio di apparire idealistico e stucchevole. Gli amori sono assoluti e colorati di destino, i personaggi svolgono ciascuno il proprio lavoro, per quanto umile, con la massima dedizione – e tutti sulla scorta di una mediazione di maestria: Yoko macina caffè a ogni occasione, per coronare il sogno fraterno di aprire una caffetteria; Wasabi percorre la città in lungo e in largo per memorizzare la posizione degli idranti, per essere un ottimo pompiere. Tutto ciò è irrealistico, buonista, e in definitiva stucchevole. Ebbene, forse è arrivato finalmente il momento che noi occidentali la smettiamo di fare come la volpe con l’uva, tacciando di ingenuità e idealismo ciò che abbiamo smesso di desiderare per orgoglio o pigrizia, cioè la formula di come l’uom s’etterna (3): l’ascesi intramondana, la klèsis paolina che Lutero, con sapienza veramente divina, accorpò alle antiche parole che indicavano il lavoro (“ponos”, “ergon”) sotto il sigillo della parola tedesca Beruf – e che può davvero servirci, temperata dall’insegnamento giapponese sulla maestria d’altri, come indicazione laica di un avviamento alla salvezza, terrena se non altro (4).
È noto che, secondo la tesi classica di Weber, questa sovrapposizione tra chiamata alla salvezza e lavoro mondano, sintetizzata nel concetto di Beruf e degenerata per inerzia e spersonalizzazione, è uno dei fattori essenziali dello spirito del capitalismo – ovvero del marcio per eccellenza del nostro tempo. I personaggi del nostro film, tipi indubbiamente ideali, semidei oppure eroi di una moderna narrativa didascalica ed edificante, temperano l’ansiosa e precaria ingiunzione di salvezza mondana che ci arriva da uno snodo cruciale della cultura europea con la paziente laboriosità e l’umiltà tipiche del giapponese, e individuano nel rapporto sereno con la maestria d’altri la chiave d’accesso a questo percorso iniziatico di salvezza mondana. Tale pensiero trova un’eco interessante, oltre che nel già citato Hillman, nei Discorsi sull’educazione di Martin Buber – per non concedere troppo al partito cristiano-luterano – di cui riportiamo in nota un passo illuminante (5).
Possiamo storcere il naso al cospetto della narrativa edificante, invocando il nostro “realismo” tradito da personaggi idealizzati e il nostro “nichilismo” mistificato da una visione irenica della realtà, talismani ai quali ci aggrappiamo dai decenni per giustificare il nostro collasso nell’abiezione, l’abbandono dell’ideale come illusione da realizzare invece che da demistificare. Oppure possiamo abbassare la testa e disporci all’ascolto. Osservare e imparare la cura con cui i giapponesi – certo, nella loro autorappresentazione idealistica – svolgono anche il più umile e insignificante dei lavori, la più miserabile e situata delle chiamate di cui sono investiti i loro dàimones (6). Può far male ad altro che al nostro orgoglio, accogliere queste rappresentazioni che cerchiamo sempre di esorcizzare, presentando a noi stessi personaggi che incarnano il colmo dell’abiezione per sollecitare una facile identificazione e cullarci con l’illusione che la nostra tristezza sia un destino che risale dalla notte dei tempi? Penso soprattutto ai giovani, e alle narrazioni che il nostro occidente ammannisce loro per prepararli a una vita di rimpianti e alcolismo. Possiamo immaginare una versione anime di BoJack Horseman o di Rick e Morty? Ecco la differenza tra noi e loro, e senza nulla togliere alla qualità artistica di due capolavori del loro genere. Col rischio di esser tacciati di simpatie tridentine e velleità censorie, però, è forse il caso che cominciamo a ripensare alla vocazione esemplare delle nostre narrazioni, oltre che al “crudo realismo” e alla “verosimiglianza psicologica”, petizioni di principio di una civiltà tragicamente in declino.
Volgendoci con fiducia alla narrativa edificante giapponese, forse, l’occidente chiuderebbe il ciclo della maestria con cui originariamente si presentò al Giappone stesso, cavalcando le onde sulle navi del commodoro Perry come una Hinako ottocentesca. Quello che abbiamo insegnato loro, la cultura occidentale, ecco che ce lo restituiscono nella sua forma migliore, perché autonomamente, senza ingiunzione, capiamo che il nostro destino, la forma migliore di noi stessi, era già presso di noi, e proprio lì dove ha avuto inizio la degenerazione della nostra civiltà – nel Beruf luterano, nella cui tabe fermentò lo spirito del capitalismo, e nell’inferno mimetico di cui parlò Girard.
La vocazione cui i personaggi del film sono chiamati ha una qualità anfibia di cui si deve considerare attentamente l’analisi, a costo di risultare ripetitivi. Da un lato, essa è il prodotto della relazione di maestria; dall’altro, essa è la forma che l’impronta eroica del maestro imprime nella materia di cui è fatto l’allievo – nient’altro che ciò che siamo, ciò che sappiamo fare, ciò che ci è familiare, per quanto misero possa sembrarci. Yoko non è come suo fratello: non è diligente e non sa andare d’accordo con gli altri, la sua caffetteria non avrà nulla in comune con quella che avrebbe voluto aprire Minato. Allo stesso modo, Wasabi non ha la forza e la determinazione del senpai Minato: è un altro genere di pompiere – e nondimeno è un pompiere, proprio come Minato. È quello che è, e va bene così. “Basta che tu sia te stesso e faccia del tuo meglio”, come gli ricorda Yoko – ma lungo la strada che, nella rivelazione di maestria, fu aperta ad entrambi da Minato.
Analogamente, per realizzare la chiamata magistrale di Minato, Hinako cerca di diventare una bagnina, ma senza successo. Il salvataggio che ella ha compiuto inaugurando la sua maestria nei confronti di Minato non può ora diventare la sua strada secondo un ragionamento causalistico e volontaristico: essa deve saldarsi alla sua indole daimonica, che come abbiamo detto è già lì, ma che la ragazza non riesce ancora a vedere con sufficiente chiarezza. Solo compiuto questo passaggio il fantasma di Minato, protettore e profeta della vocazione da (ri)trovare, ultima garanzia di appoggio eteronomo e deresponsabilizzante, potrà essere lasciato andare. Non prima, però, di aver supportato la sua amata un’ultima volta, risvegliando il dàimon di Hinako nella forma smagliante che esso assume quando cavalca le onde. Nella scena finale del film, nella quale lo splendore della realtà plasmata dalla maestria si mostra scevro da ogni residuo scrupolo di realismo, lo spirito di Minato muove per magia una gigantesca colonna d’acqua per spegnere un incendio, e Hinako salva Yoko da morte certa cavalcando la sua tavola da surf sotto lo sguardo dell’amato, che sulla soglia delle acque intreccia le proprie dita incorporee alla mano di lei, avvolgendola in un rivolto ondoso di cui lo spettatore, se cede alla suggestione, può sentire la presenza leggera e rasserenate sopra la propria testa. Così si compie la giunzione tra i due Beruf: la chiamata della maestria d’altri e la vocazione indolica del dàimon, che era in questione fin dall’inizio – e che è in questione per ciascuno di noi, credo, in ogni momento della vita.
(1) Alludo solo per orecchiamento ai chiacchierati e penso poco letti – da me per primo – eroi di Carlyle, di cui forse potrebbe essere il caso di tornare a occuparsi. Del superuomo parlo in termini generali, da Nietzsche alla Marvel, e dico “degenere” solo perché esso non ha chiaramente nulla della purezza immaginale di un mito delle origini.
(3) Dante, Inferno XXV, vv. 82-85: «che ‘n la mente m’è fitta, e or m’accora, / la cara e buona imagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uom s’etterna»: è forse a Virgilio che si rivolge Dante in questi versi accorati, che analogamente al nostro discorso saldano tra loro i concetti di eternità, l’”imagine” come resto sacro e fenomeno originario della relazione di maestria, le “buone opere” compiute in vita e l’insegnamento? No: a quel sodomita di ser Brunetto, il suo primo maestro in carne e ossa. Se il lettore crede, rilegga questi stessi versi dopo aver finito l’articolo, per coglierne la sorprendente pregnanza.
(4) Mi rifaccio pedissequamente all’analisi weberiana dell’opera di traduzione di Lutero, per la quale cfr. soprattutto la nota 55 alla prima parte del saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (pp. 140-145 dell’edizione BUR 2010). Prima della traduzione luterana della Bibbia, la parola tedesca Beruf significava solo “chiamata”. Lutero la utilizza per tradurre, indistintamente, la klèsis paolina, la chiamata alla salute eterna da parte di Dio, e il comandamento di Siracide che ciascuno rimanga saldo nella propria fatica, ovvero nel proprio lavoro: “ponos” ed “ergon”, che il latino affratella nella polisemia della parola labor, che vuol dire “lavoro” e “sofferenza” a un tempo. Per questa minuzia filologica, e però così cruciale per la storia della civiltà europea, ringrazio e ricordo con commozione due persone, Massimo Amato e Marta Gallorini Sandalo: il primo mi insegnò queste cose, la seconda me lo fece conoscere e mi portò alle sue lezioni.
(5) M. Buber, Discorsi sull’educazione, Armando Editore, Roma 2009, pp. 67-68, corsivi miei: «In un’epoca di disgregazione, la verità di ciò che accade […] dipende solo da coloro che nel silenzio operoso del loro ambito di lavoro rispondono (antworten) del permanere (Fortdauer) della sostanza vivente, ne assumono la responsabilità (verantworten) […]. La domanda ricorrente “In quale direzione, a quale fine bisogna educare?” non tiene conto della situazione. Ad essa possono rispondere solo epoche che conoscono una figura comunemente ritenuta valida – Cristo, il gentiluomo, il cittadino – e non a parole, ma indicando la figura esemplare che sovrasta decisamente tutti gli altri. Plasmare questa figura in tutti gli individui, a partire da ogni tipo di materia, questa è la formazione (Bildung): quando tutte le figure di riferimento vanno in frantumi, quando nessuno riesce più a gestire e plasmare la materia dell’umanità attuale, cosa si può ancora creare? Nient’altro che l’immagine di Dio» – o dell’eroe divino, in prospettiva pagana. Echi e approfondimenti di questo discorso, che collega i due fenomeni della “chiamata” e della “maestria”, si trovano certamente nel già citato Buber, ma anche in Lévinas (Totalità e infinito, edizione Jaca Book del 2016, in particolare le pp. 98-101), che sono i due grandi padri della “terza via” al mimetismo di cui finisce per aver sentore chi frequenta Girard da troppo tempo. Un nodo che a mio giudizio va tematizzato in particolare (e mi rivolgo a te, Matteo) è il rapporto tra il discorso di Lévinas sulla maestria all’accusativo del volto d’altri, paziente in senso etimologico, e la sua torsione nell’eroismo trionfante che la frequentazione della narrativa animata giapponese permette di individuare come, forse, contraltare “pagano” del discorso di Lévinas. A questo proposito, bisognerà scrivere qualcosa su Boku no Hero Academia, prima o poi.
(6) Ancora Hillman, in una bellissima palinodia del sogno americano, nel capitolo intitolato “La mediocrità” de Il codice dell’anima, critica appunto la nozione di “mediocrità” in quanto dedotta da un impianto totalitaristico della società, gerarchizzata sulla base di un medesimo prototipo umano, spersonalizzato dal culto monoteistico del demone della potenza, che mortifica i singoli dàimones indolici. Ma «la vita felice, ciò che i greci chiamavano eudaimonìa, è la vita che va bene per il proprio dàimon» (p. 322).
di Mattia Carbone
Questo articolo è già uscito su Delle cose nascoste, un blog che dalle idee di René Girard cerca di dare una nuova chiave di lettura sia della società che dei suoi prodotti culturali. Abbiamo voluto pubblicare questa rubrica perché crediamo che il pensiero di questo studioso, un intellettuale sorprendente che ha dato un contributo originale nei campi di studio più disparati (si spazia dalla letteratura all’antropologia, dalla sociologia alla storia delle religioni) sia di fondamentale importanza per coltivare una visione critica sul mondo, soprattutto sulla nostra contemporaneità.