Il libro della follia umana di Paul Auster
Dopo l’11 settembre 2001 gli autori americani si sono cimentati nella narrazione di un dolore e di una ferita così tanto profonda perché senza precedenti. L’uomo che cade di Don DeLillo in questo senso è un esempio di quanto l’attentato alle Torri gemelle abbia messo in dubbio tutte le certezze statunitensi. Ma la New York che si affaccia al ventunesimo secolo, che ancora non sa nulla di quello che sarà, cos’ha da dire? Per duecentosessanta pagine leggi quello che Nathan Glass ritiene di doverti far sapere. Ottimo intrattenimento: Paul Auster è uno dei maggiori scrittori americani contemporanei. È solo nell’ultima pagina che ti viene suggerita la chiave di lettura, e allora non puoi che compiere tutto il percorso al contrario, sotto una nuovissima, sfavillante luce.
Stavo cercando un posto tranquillo per morire, esordisce Nathan Glass. Qualcuno, non sappiamo chi, gli consiglia Brooklyn. Glass esce da un matrimonio fallimentare, da una malattia che avrebbe dovuto finirlo e non ha altri progetti che lavorare al Libro della follia umana. Nella sua prima e ultima opera si propone di raccontare tutti quei momenti inspiegabilmente ridicoli, tipo quella volta, al Ringraziamento, in cui il rasoio si è incastrato nel water, water che poi è stato smontato e portato in giardino sotto gli sguardi straniti degli ospiti ben vestiti.
La struttura del libro non è niente di nuovo per chi già conosce Paul Auster: un libro nel libro in cui l’autore è anche il protagonista. Non una trama incredibile sulla carta, ma una serie di banalissime quotidianità (matrimoni, divorzi, pranzi e cene in ristoranti a buon mercato) alle quali si sommano le tipiche stravaganze austeriane.
Della letteratura americana mi piace poi che le città diventino dei personaggi, con le proprie specificità e i loro difetti. Che Auster voglia giocare con il lettore presentandogli sotto il naso situazioni al limite all’interno di uno spaccato che non sembra avere nulla di strano è chiaro fin dal presentare Brooklyn come il paradiso dell’uomo anziano che sceglie di ritirarsi dalla vita attiva. New York è stata teatro di detective stories atipiche (Trilogia di New York), ha visto i quattro Archie Ferguson affannarsi per ritagliarsi un posto nel mondo (4 3 2 1); ora è non solo lo sfondo delle avventure dell’ex assicuratore Nathan Glass, acuto osservatore dell’umanità che lo circonda, preciso compilatore di follie, ma un personaggio che con il suo reinventarsi non è mai uguale al capitolo precedente.
Non sono veri i personaggi di Follie di Brooklyn. O, meglio, lo sono, ma di ognuno si insiste su un particolare che possa renderlo in qualche modo universale. Non è quindi la storia di Nathan e delle varie persone che incontra lungo il cammino (il dottor Thumb, Harry Brightman, la B.P.M.), ma è la storia di Nathan e di una umanità che non avrebbe senso altrove, perché è Brooklyn e la catena di eventi che la investe a conferire loro una particolarità vitalità.
Il protagonista di Paul Auster invece non ha nulla di speciale. La letteratura americana è piena di ebrei laici con alle spalle matrimoni burrascosi, genitori di figli che vedono raramente, con un lavoro nella media, non troppo entusiasmante. Glass non fa nulla per rendersi memorabile agli occhi del lettore: segue un po’ l’onda di quello che gli succede, cavalcandola e lasciandosi portare. Non verrà ricordato come lo Svedese di Pastorale americana (Philip Roth). Di Follie di Brooklyn verrà ricordato piuttosto come tutta la serie delle umane follie sia accaduta a un’unica persona, quell’unica persona che, di follie, se ne intende ed è quindi in grado di scorgerle, etichettarle, prevederle.
Quindi no, i personaggi del libro non sono solo comprimari del narratore, ma sono anche il vero motore della vicenda, tanto che stavo pensando a quanto sarebbe facile paragonare Follie di Brooklyn a uno di quei giochi nei quali per accedere alla stanza successiva devi prima risolvere l’indovinello di quella in cui ti trovi. Non c’è situazione che non si crei a partire da quella precedente, e questo parte dal semplice amore per i libri di Nathan Glass, amore che l’ha avvicinato al nipote prodigio-ora-meno-prodigio Tom, per portarlo prima in un ristorante chic con un anziano omosessuale, poi a una esibizione di drag queen, infine in una pensione mai aperta del Vermont.
Ogni uomo ha in sé diversi uomini, e la maggior parte di noi rimbalza da un’identità all’altra senza nemmeno sapere chi è, dice Glass. Follie di Brooklyn mostra tutti questi diversi uomini all’opera, come piccole formiche, affaccendati ad arredare nel miglior modo possibile il proprio posto nel mondo, senza tenere conto del minimo comune denominatore che ci divide da quando siamo nati: la pazzia, strana infezione dello spirito che può colpire chiunque, in qualsiasi momento, giovani, vecchi, alcolizzati e astemi.