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pubblicato 4 anni fa in Interviste

Intervista a Graziano Graziani

Intervista a Graziano Graziani

Gianluca Garrapa intervista Graziano Graziani, autore del Taccuino delle piccole occupazioni (Tunué, 2020), edito nella collana Romanzi.


Gianluca Garrapa: «Il problema di base sono i ricordi. Avevo notato come, pian piano, avessi smesso di posizionarli nella mia testa secondo un rigoroso ordine temporale. Facevo confusione».

Girolamo dimentica, o comunque ha un rapporto un po’ complicato con il tempo, mi viene in mente che nella lingua Aymara, una lingua del Perù, il passato è collocato in avanti e il futuro dietro, alle nostre spalle. Forse non è poi così lontano dalla verità Girolamo nel considerare il tempo un fatto strettamente relativo. Ma lo strano oblio di Girolamo evoca la particolarità di quest’epoca immemorabile, frenetica e brevissima eppure pervasa da ricordi, fotoricordi. La memoria collettiva, magari, si dissolve sempre più e i ricordi personali, le istantanee del tempo fermate sui social network paiano dilatare questo presente eterno, esterno, sempre meno soggettivo. Nel corpo soggettivo di Girolamo scorgo una deriva schizofrenica che fa della scrittura un vero e proprio piacevole realismo psicotico. Si guarda il mondo dal punto di vista della mente distorta, minoritaria.

Come cambia la scrittura, secondo te, alla luce di questa nuova memorabilità effimera e soggettiva?

Graziano Graziani: La scrittura deve sempre cercare la strada più giusta per raccontare quello che vuole raccontare. Nel caso del Taccuino, che è un libro nato dall’idea iniziale di raccontare una serie di piccole nevrosi e dissociazioni legate al vivere contemporaneo, nella fattispecie quello urbano, ho dovuto fare i conti con il tema della coerenza della storia. Ho pensato che cercare di minare leggermente la coerenza dei fatti raccontati dal protagonista potesse rendere conto di una condizione che, nel bene o nel male, viviamo tutti: ogni racconto che facciamo di noi stessi tende a mistificare. Non dico che siamo tutti bugiardi patologici, ma che fare narrazione dei propri ricordi è già in un certo senso un atto di invenzione. La memoria è assai meno precisa di quello che si ritiene solitamente. Oggi, ad esempio, nei processi viene presa con le pinze quella che si chiama “testimonianza oculare”, perché homo sapiens, per sua natura, tende a ricamare sui propri ricordi, ad aggiustare, a smussare e ridisegnare particolari. È un’attività che è legata al funzionamento della nostra mente, al fatto che siamo perennemente alla ricerca di un senso. Da questa riflessione si è innescata la storia di Girolamo, alla ricerca di un senso anche piccolo, personale, in un’era che non ne offre più di collettivi; schivando le proprie nevrosi e cercando di fare i conti con una memoria imperfetta, fatta di incastri che non combaciano alla perfezione.

D.: «Girolamo è convinto che da qualche parte della città, in un angolo imprecisato e oscuro che lui non conosce, ma dove è passato mille volte senza rendersi conto, ci sia un Girolamo in tutto uguale a lui».

Nel romanzo s’intrecciano due linee narrative: nella prima si racconta di Girolamo in terza persona, e nella seconda è Girolamo che si racconta: la seconda parte mi ha fatto pensare a quel romanzo di Saramago: L’uomo duplicato. È vero che vi è tutta una tradizione della letteratura che ha trattato il doppio, il sosia, l’altro speculare, ma sembra che la preoccupazione di Girolamo sia di natura, per così dire, narcisistica, anzi egli pensa che quell’altro Girolamo sia più contento di lui, che la sua vita scorra liscia e che insomma non sia un fallito come invece crede di essere Girolamo. Ma la domanda è un’altra: che rapporto hai con gli Altri del passato che hanno influenzato il tuo lavoro, non mi riferisco solo a Saramago, a Calvino, a Kafka (mi sembrano aleggiare con le loro anime tra le righe del tuo libro) ma proprio agli Altri anche fuori della letteratura: nella musica – tra l’altro tu sei un conduttore radiofonico – a esempio, nell’arte, nella pittura?

R.: Non esiste un pensiero che non si sviluppi a partire dagli altri. La scrittura, che è un’attività che si svolge in solitudine, è però costantemente condizionata dalla presenza ipotetica dell’altro. Si scrive per qualcuno, per rispondere a qualcuno o a qualcosa, per reazione a un pensiero o a un’emozione scaturita da un qualche tipo di rapporto, intellettuale, sentimentale o di altra natura. Che ce ne rendiamo conto o meno siamo tutti parte di un meccanismo di pensiero più grande di noi dove l’originalità, che è un grande feticcio dell’occidente, è quasi sempre qualcosa di non concreto, non realistico. Certo, si può essere originali nel connettere le idee, nel trovare nuove strade di racconto e di pensiero, ma tutti quanti noi – se ci pensi – ci affacciamo al mondo parlando parole già parlate da altri, che ci aiutano a formare una griglia mentale per interpretare la realtà, ma che è appunto una griglia realizzata con strumenti pensati da qualcuno che non siamo noi. Questo tema dell’originalità, per altro, è uno dei grandi crucci di Girolamo, che resta attaccato a un’idea romantica dell’individualità. Questo per dire che ogni forma di scrittura, ogni forma d’arte, è già di per sé un dialogo con “gli altri”, perché scaturisce da una serie di inneschi che sono nostri ma partono sempre da ciò che abbiamo letto, visto, ascoltato.

D.: «C’è da dire, a sua discolpa, che Girolamo vive in una città ad alto tasso di turismo e che, a causa della sua misantropia, è davvero difficile che stringa con i vacanzieri rapporti che eccedano il tradizionale buongiorno e buonasera, o anche il semplice gesto del capo per intendersi su chi è che deve passare prima a un incrocio».

Il termine psicogeografia all’interno del tuo romanzo è un hapax, compare solo una volta, eppure il flâneur Girolamo vive di questo ascolto del mondo, esteriore e interiore, tanto che interno e esterno, visione oggettiva e interiorità si mescolano, si frammentano sovrapponendosi. Una visione idiosincratica e ricca fa di Girolamo un uomo che passeggia nella vastità della storia e pure non mancano gli spazi angusti della seconda trama, quella kafkiana, dove Girolamo s’intriga a svelare la natura del suo doppio tra i corridoi angusti, le scale come disegnate da Escher, le stanze soffocanti del Municipio o la bottega dell’orologiaio. Insomma il romanzo è anche una scrittura degli spazi, oltre che degli oggetti e dei fantasmi. Di visioni e interpretazioni. Mi pare che l’ascolto e la visione oggi manchi un poco. Cosa è per te la città come luogo di narrazione? E che rapporto hai con gli spazi intimi e con quelli storici?

R.: La città è una dimensione che mi affascina da sempre, per la sua dimensione di scoperta e pluralità apparentemente inesauribile. C’è da dire che nei decenni passati si è fatto un grande ricorso alle poetiche urbane, dal punto di vista di varie discipline, e questo può aver usurato un po’ quella dimensione di racconto. Tuttavia viviamo un momento della storia in cui sono più gli esseri umani che vivono in città che quelli che vivono in campagna, e questo è la prima volta che accade. Paradossalmente questo sorpasso coincide anche con una profonda crisi delle città, sempre più ingestibili e invivibili, sempre più connesse a una dimensione ansiogena, dalla quale però è difficile emanciparsi perché le città restano il principale motore di “occasioni” per la vita economica e relazionale delle persone. Questa contraddizione genera conflitti e solitudini, che è uno degli aspetti che volevo mettere a fuoco nel libro. Poi, ovviamente, ogni città è una stratificazione di luoghi e dimensioni, possono esserci enormi strade a scorrimento e vicoli minuscoli, quartieri popolosi e pezzi di terreno sfuggiti all’edificazione (quelli che Clément chiama terzo paesaggio). Nel mondo di Girolamo un ruolo importante lo rivestono gli uffici pubblici, luoghi scuri e un po’ polverosi dove occorre avventurarsi come dentro un dungeon, un labirinto, per ottenere (forse) quello che si cerca. Mi interessava raccontare, attraverso delle piccole iperboli, una sorta di metamorfosi dello spazio che seguisse gli stati d’animo del protagonista. Nel caso degli uffici pubblici si tratta di una sorta di contrazione dello spazio, che si attorciglia e diventa indistricabile come la ricerca del protagonista; in altri casi, come quando Girolamo si siede alle quattro del mattino in una piazza vuota del centro, in silenzio, cercando di visualizzare i suoi ricordi, lo spazio urbano subisce una specie di dilatazione che accompagna lo sguardo del protagonista, a cavallo tra due realtà, tra presente e passato. Lo spazio raccontato è sempre uno spazio inquieto, che dialoga con il desiderio.

D.: «D’altra parte, osservata dal punto di vista irrazionale, la questione è anche il nodo gordiano di due pulsioni irresistibili, l’istinto di riproduzione e il desiderio (non quello sessuale, quello di non sentirsi soli). Il primo ha a che vedere con la nostra animalità, il secondo con la nostra anima».

Che ruolo gioca il desiderio nella tua scrittura? Come è nato questo romanzo e quale necessità, se c’è stata, lo ha desiderato dare alla luce della filigrana?

R.: Credo di avere in parte già risposto nella domanda precedente. Il desiderio c’entra molto in questa storia, anche quando non si realizza, anzi, soprattutto quando non si realizza. Ho definito questo un romanzo sulle “occasioni mancate” perché il piglio malinconico del protagonista si definisce proprio a partire da esse.

Fuori dalla storia, invece, il mio desiderio era quello di provare a tracciare un elenco di idiosincrasie rispetto al vivere contemporaneo che, pian piano sono diventate un personaggio. Ne è uscita fuori una storia di una persona alla ricerca di sé stessa – non in senso metaforico, in senso letterale, perché Girolamo è sulle tracce del suo doppio – con degli effetti comici, a volte, e a volte malinconici. Che è molto di più di quell’abbozzo di idea che mi ero prefissato all’inizio. Girolamo incarna in modo stralunato quella sfasatura tra pensiero e azione che era alla base delle piccole storie che hanno dato origine al romanzo. A seguire i propri desideri può capitare di finire fuori strada ma non è detto che non ne esca un risultato migliore.

D.: «Per un certo tempo della sua vita Girolamo ha avuto una visione integra del mondo. È una frase che ha inventato Girolamo, la visione integra del mondo, e che si ripete spesso quando vede qualcosa che non riesce a capire fino in fondo».

Il titolo di ogni capitoletto ripete la formula “Girolamo e …” quasi un’anafora, e i gruppi di capitoli dove si parla di Girolamo in terza persona, si alternano a quelli, senza titolo, in cui Girolamo parla di sé alla prima persona: come mai questa struttura che alterna due stili molto differenti di scrittura?

R.: All’inizio pensavo di utilizzare solo la terza persona. Volevo raccontare la vita di un uomo come se fosse un accumulo enciclopedico di eventi, come un manuale di istruzioni. Ma quell’accumulo doveva essere sconclusionato, suggerire cioè la possibilità di un ordine, di un senso, ma sabotarlo costantemente dall’interno. L’effetto che ne usciva era per me suggestivo ma non molto dinamico (e un po’ troppo vicino alle meditazioni del Palomar di Calvino, anche se hanno tutt’altro registro). C’era bisogno che questo materiale, per quanto sconclusionato, andasse da qualche parte. A un certo punto ho capito che era Girolamo a dover inseguire sé stesso. Avevo già scritto un breve capitolo su “Girolamo e il suo doppio” e, riprendendo quel discorso, è uscita fuori la storia che lega i vari frammenti. È scritta in prima persona perché in quel caso siamo fuori dall’enciclopedia e dentro il percorso che porta Girolamo a impelagarsi in una specie di caccia all’uomo, che poi non è altri che lui. E, oltretutto, è una specie di confessione, che solo il protagonista, prendendo parola in prima persona, poteva fare.

D.: Girolamo e i cinque sensi: che odore ha la scrittura? Che suono produce? Cosa ci fa vedere? Cosa ci fa ascoltare? Che gusto ha la scrittura?

R.: Davvero non lo so cosa ci fa vedere, cosa ci fa ascoltare o che gusto abbia. La testa di ogni persona è un rebus. Si scrive (per quello che mi riguarda) per inseguire un qualche fantasma, un’ossessione, per mettere a fuoco un discorso che viene lanciato nella speranza non solo che qualcuno lo legga, ma che leggendolo possa entrarci in assonanza. Houellebecq in Sottomissione dice che la letteratura è forse l’unico modo di entrare davvero in connessione con un’altra mente, anche se questa è già morta. È quella connessione che si ricerca. Quando avviene, beh, allora sì, probabilmente la scrittura ha un sapore, un gusto, produce suoni. Ma non sono io a poterti dire quali.

D.: Questo è un domandone cui puoi anche non rispondere e che però nasce dalla curiosità di comprendere i luoghi e il corpo dello scrittore:

Dove scrivi, quando scrivi, dove cammini quando ti riposi?

Scrivo a casa, al bar, dove capita. Ma per chiudere un libro ho bisogno di chiudermi, anche io, da qualche parte. Non ho un luogo preciso, basta che sia un posto dove posso chiudere il mondo fuori dalla porta per un po’.

In quale città o paese è nato il tuo ultimo libro, in che stanza, in che bar?

Il Taccuino è composto da stratificazioni, da un accumulo di materiali da cui poi ho ricavato la storia. Sicuramente casa mia, a Roma, in questo caso, è stato un luogo ritornante. In particolare la stanza che affaccia sulla piazza del mio quartiere, che è entrata, un po’ cambiata, anche dentro il romanzo.

Sei mancino\a o destrorso\a?

Destrorso.

Passeggi?

Spesso.

In bici, in auto, osservi alberi?

A piedi, mi piace camminare in città. Passare davanti i negozi, o la sera davanti ai monumenti, quando non c’è più nessuno.

Scruti cornicioni, affondi lo sguardo nel cielo, segui le onde del suono dell’acqua?

Il cielo preferisco guardarlo quando sono fuori città. In città ti sorprende principalmente all’alba e al tramonto, quando le strisce nere dello smog si intrecciano con le scie delle nuvole illuminate.

Quali sono i rumori della città e quali i silenzi delle vaste campagne?

L’acqua delle fontane, se c’è poca gente. Sennò che rumori ci sono in una città come Roma: le macchine. In campagna il silenzio non c’è, è pieno di piccoli rumori, per un cittadino come me sono fonte di pace (ma mi resta la convinzione che, se mi capitasse di stare in campagna per molti giorni finirei per scappare in città).

Fumi?

No. Ma ho fumato per dieci anni.

Bevi?

Sì.

Quanto pesi?

Troppo.

Scrivi dopo cena, prima di pranzo?

Dipende. Una volta era meglio la notte. Ora la mattina, ma non sempre.

Quando?

Quando ingrano. Non è importante il momento ma la disposizione. È come se non sentissi più quello che ho attorno e allora scrivo parecchio. Ma succede di rado. Per il resto devo obbligarmi alla concentrazione nei momenti che ho a disposizione.

La tua è scrittura di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo?

Soprattutto è una scrittura dalla postura impossibile. Finisco sempre con dei gran mal di schiena.