Intervista a Il muro del canto
Rispondono alle domande Daniele Coccia e Alessandro Pieravanti.
Avete realizzato il vostro primo album, L’ammazzasette, nel 2012, come vi siete conosciuti? Già vi conoscevate prima di diventare Il muro del canto?
Siamo entrati in contatto tra noi la prima volta ad un festival estivo che si chiamava “Vudstok in Sabina”, c’erano i musicisti di mezza Roma. Ma il progetto de “Il Muro del Canto” è nato qualche anno dopo. Nel frattempo molti di noi erano già diventati buoni amici. Io ed Alessandro Pieravanti eravamo fans l’uno dell’altro, Giancarlo Barbati è stato il fonico della band che avevo prima del Muro del Canto, non che la mente di progetti musicali geniali e assurdi. Ludovico ed Eric suonavano insieme negli En Plain Air. Alessandro Marinelli era il ragazzo prodigio del mio paese, in grado di suonare qualsiasi strumento si trovasse tra le mani. (D.C.)
Come nacque il primo album? Una volta conosciuti, quanto tempo avete impiegato per scrivere i testi e per la realizzazione delle melodie?
Quando la formazione fu completata avevo quasi tutto “l’Ammazzasette” scritto. Tutta la lavorazione di quell’album fu molto fluida, la costruzione dei brani avvenne con una naturalezza quasi magica. Nel giro di 6/7 mesi avevamo un bel repertorio da suonare dal vivo e un album nostro da registrare. (D.C.)
Cosa racchiude il vostro nome? Cosa significa Il muro del canto?
Il Muro del Canto è un nome molto semplice che trasforma il pianto in canto. Il nome rappresenta la coralità dei nostri concerti e la vicinanza con il nostro pubblico. (D.C.)
La Roma da voi cantata evoca atmosfere pasoliniane: la periferia, l’infanzia, il carcere, il tradimento, gli amori, la morte… Pasolini per voi è una fonte d’ispirazione? Quanto influisce sui vostri testi il filone neorealista?
Pasolini con “Mamma Roma” e “Accattone” non solo ha scritto le prime pagine del cinema neorealista mondiale ma ci ha mostrato la borgata romana, la sua faccia sporca, le sue miserie, con i volti di quella gente e dando la parola ai ragazzi di vita. Le storie del Muro del Canto raccontano la stessa gente e con la stessa voce cinquanta anni dopo. (D.C.)
E invece con le sonorità di Morricone? Mi viene in mente, per quanto riguarda l’ultimo album, l’intro di Madonna delle lame.
Le colonne sonore dei Western all’italiana di Morricone sono per noi una grossa fonte di ispirazione e troviamo molto interessante il paragone ideale tra il far west dei film di Sergio Leone e la situazione dell’Italia contemporanea. (D.C.)
Nel gruppo siete sei componimenti, al momento della composizione e della scrittura come riuscite a far convergere le vostre influenze musicali?
E’ molto semplice, in sala prove ognuno si esprime con il proprio strumento. Le nostre idee, influenze e riflessioni confluiscono e determinano quello che sarà il brano alla fine. (D.C.)
In Fiore de niente, mi ha colpito particolarmente la canzone Figli come noi, una canzone la cui tematica è sempre attuale: l’abuso di potere per mano delle forze dell’ordine, i nomi che mi vengono in mente sono Gabriele Sandri e Stefano Cucchi, secondo voi l’arte, in particolare la musica, può ancora migliorare la realtà? Che impatto ha, a vostro giudizio, la musica sulla realtà, sulla vita quotidiana?
Non so quanto impatto possa avere la musica sulla vita quotidiana. Il fatto che dei temi cosi importanti e scottanti vengano affrontati molto poco nelle canzoni ha raddoppiato l’impegno con cui abbiamo deciso di affrontare tutto il progetto di “Figli come Noi”. Cantare questa canzone è sempre molto triste ma sarebbe stato molto peggiore ignorare la lista dei morti ammazzati dalle forze dell’ordine in Italia e parlare d’amore. (D.C.)
Tornando invece al primo album, mi viene in mente la canzone 500: Tutti sanno ‘ndo stamo, tutti sanno quello che stamo a fa e va a finì che ogni persona che sa che quello che stamo a fa noi, se fa ‘n’idea de noi e crea ‘n’immagine. N’immagine de noi, ‘n’immagine trasparente fatta de luce, ‘n’immagine che ce segue e va a finì che quanno stamo pe’ strada, non stamo più da soli: c’avemo ‘ntorno le immagini che la gente ha creato de noi, immagini silenziose che ce seguono come fantasmi, fantasmi che pare che ce somigliano, ma nessuno davero è come noi. Può sembrare forzata una simile interpretazione, però, ecco, queste parole, mi spingono a intravvedere tra le righe una critica forte alla nostra società, a come è diventata per mano dei social network: passività, indifferenza, noia, conoscenze e identità virtuali. Qual è il vostro giudizio in merito a questo?
500 non è stata scritta pensando ai social network anche perché quando è nata il coinvolgimento social delle persone era sicuramente ad un livello più basso di quello che viviamo ora. Con il tempo però il concetto di informare sempre tutti sulla propria “vita” o su quello che si vorrebbe far pensare di essa è stato esasperato dalle nuove tecnologie e dall’uso esasperato che se ne fa. 500 vuole semplicemente spiegare come si è schiacciati dal giudizio altrui e che l’unica soluzione è prenderne le distanze evitando di esserne dipendenti, cosa molto difficile ma essenziale. (A.P.)
Vivere alla grande, chiude, almeno per ora, “l’epica” dello spaccone romano, dell’ammazzasette, del coatto che, nonostante le mille difficoltà, viene descritto con i sentimenti buoni, il suo status sembra convergere con quello dell’ “eroe maledetto”. Siete riusciti a evocare l’immagine di un coatto che, in un certo senso, conserva la romanità. La domanda che vi pongo è questa: secondo voi il tipico coatto romano, quello dalle infradito, occhiali specchiati e la canottiera sul t-max a primavera, può essere considerato un distruttore della romanità?
Esistono tanti tipi di romanità, l’errore nel guardare alle dinamiche sociali è giudicare più o meno buono un determinato comportamento. Nello specifico ci piace osservare le peculiarità dei romani sotto tanti punti di vista, anche quelle distanti dal nostro stile di vita, che non è detto essere il più giusto solo perché messo in pratica da noi stessi. Per cogliere le sfumature più interessanti e gli spunti più caratteristici bisogna togliersi di dosso quel pregiudizio che troppo spesso si ha nei confronti di chi è diverso. L’approccio popolare sta nel cercare di avere un dialogo con tutti quelli che in maniera sana e genuina popolano le strade della città a prescindere dall’abbigliamento che indossano. Non credo che l’infradito e la canottiera siano peggiori della barba da hipester e del risvoltino ai pantaloni, anzi. (A.P.)
Palazzinari è una forte critica ai nuovi quartieri dormitorio, all’eterna speculazione edilizia che imperversa sulla città di Roma, oramai comandata, per l’appunto, dai palazzinari. Cos’è che manca alle periferie? L’attuale sindaca Raggi potrebbe essere la persona giusta per migliorare le periferie?
Palazzinari è ambientata a Ponte di Nona e racconta dell’assenza di servizi al cittadino in un quartiere dormitorio che vive attorno al Centro Commerciale. Così come Ponte di Nona diversi quartieri periferici romani vivono le proprie difficoltà ognuno con le sue peculiarità legate al periodo storico in cui sono stati edificati. Zone di Roma molto popolose ma allo stesso tempo prive degli elementi base necessari alla vita in una metropoli: sanità, verde pubblico, trasporti, istruzione, tutti elementi che messi insieme innalzerebbero la qualità della vita delle persone disincentivando la criminalità. Prescindendo dal giudizio generale sul nuovo Sindaco, capire quanto si spenderà per le periferie romane è ancora presto, mi sembra che stia affrontando delle difficoltà oggettive anche solo nell’insediamento in Campidoglio. (A.P.)
Ho notato che ad Aprile avete suonato a Milano e a Torino. Come è stato l’impatto del dialetto romano sul pubblico?
È bellissimo suonare fuori Roma e scoprire che nella musica non c’è leghista che tenga e che nessuno ce l’ha con nessuno. Il Romano è un dialetto molto amato e anche a Milano, Torino o a Firenze c’è moltissima gente che ci vuole bene e che viene a ballare ai nostri concerti. Il punto di forza dei nostri concerti fuori dal Lazio è proprio la consapevolezza dell’abbattimento di molti maledetti preconcetti culturali. (D.C.)
Intervista a cura di Daniele Lisi
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