Culturificio
pubblicato 5 anni fa in Letteratura

Intervista a Marco Marrucci

Intervista a Marco Marrucci

Abbiamo posto alcune domande a Marco Marrucci, autore di un’appassionante raccolta di racconti, Ovunque sulla terra gli uomini, edita l’anno scorso da Racconti edizioni. Sul culturificio avevamo già scritto di questo esordio narrativo, a nostro avviso uno dei più convincenti degli ultimi tempi. Ringraziamo l’autore per la sua cordiale disponibilità.

Era da parecchio tempo che non leggevo un libro di narrativa italiana contemporanea interessante come Ovunque sulla terra gli uomini. Come ti è venuta l’idea di scriverlo? Come mai hai pensato alla forma racconto? Tutti i racconti sono contemplati per questa raccolta, oppure avevano un’esistenza autonoma?

Tento di raccogliere tutte e tre le domande in un’unica risposta dicendoti che l’idea del libro preesiste ai singoli racconti. Prima di scrivere ho ruminato e digerito a lungo i dieci episodi della raccolta per assicurarmi che avessero il potenziale di storie efficaci. Quando sono arrivato a conoscere molto di ciascuno di essi (tenore della prosa, ambientazione, rovesci di trama) ho abbozzato un piano d’opera che è la copia esatta dell’indice consultabile in fondo al volume. A quel punto ho cominciato a scrivere. Come vedi Ovunque sulla terra gli uomini è stato guidato da una progettualità e da un rigore architettonico piuttosto marcati: non esistono eccedenze rispetto al programma e non erano contemplati fallimenti. Dovevo scrivere tutti e dieci i racconti e soltanto quei dieci racconti.  

Mi piacciono molto i nomi propri con cui hai battezzato i tuoi personaggi, tanto che mi sembrano veri. Ogni racconto della tua raccolta ha una sua geografia, esplicitata quasi sempre già dall’inizio della narrazione. Da cosa deriva questa cura per i luoghi?

Il germe di ogni racconto si annida in un fatto di cronaca, in una biografia altrui oppure in una suggestione letteraria che ha una precisa radice geografica. Avevo quindi un dovere di fedeltà nei confronti del luogo di origine della storia, e le informazioni che non possedevo – non sono mai stato in Mongolia o in Giappone o in Centroamerica – le ho recuperate miscelando ricognizioni topografiche, guide turistiche, cronache di viaggio e immagini satellitari. Per me era necessario che le vicende si incastrassero in uno scenario realistico e documentabile in modo da amplificare l’assurdità, la magia, la violenza, la tenerezza degli eventi. 

Quanto è importante la filosofia per la tua scrittura?

Molto, suppongo. I riverberi della filosofia non si possono mappare con esattezza, sono diafani e persistenti. Di sicuro un paio di racconti (Storia di Gombo e Tuya e Le notti sopra la Tessaglia) muovono da premesse esplicitamente filosofiche riguardanti la doppiezza del simbolo e l’ermeneutica delle grandi mitologie.

Una domanda volutamente vaga: cosa leggi solitamente?

Ti elenco alla rinfusa alcune cose che ho letto di recente: I sette pazzi di Roberto Arlt, Ultimo round di Julio Cortàzar, Il carteggio Aspern di Henry James, L’invenzione della madre di Marco Peano, Novelle disincantate di Jacques Bens, Tra parentesi di Roberto Bolano, sbocconcellamenti de Il gene egoista di Richard Dawkins, Requiem di Antonio Tabucchi, Tre piani di Eshkol Nevo. Inoltre sono un vorace consumatore di quotidiani durante lunghissime colazioni al bar.

Hai già in mente di scrivere altro?

C’è già un secondo lavoro pronto. Vedremo quale destino avrà.


Intervista a cura di Federico Musardo

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