“Isidor”di Shelly Kupferberg
fraintendere i segnali del tempo
C’è una serie di lettere e fotografie, con il loro carico di memoria e oblio, che sono rimaste a sonnecchiare per sessant’anni a Tel Aviv, nel soppalco dell’appartamento dei nonni, fuggiti a suo tempo dalla loro Vienna dopo l’Anschluss. Questo passato, una volta dissepolto, rivela alla nipote molte delle storie che ha sentito raccontare in famiglia, che aprono in lei squarci di conoscenza e pungoli di indagine.
Le parole e le immagini incontrano la Storia, i ricordi incontrano i documenti. Per Shelly Kufberberg, giornalista culturale e conduttrice radiofonica tedesca, quella che doveva diventare una puntata di approfondimento con i propri ascoltatori si trasforma in un libro, in una cronaca testimone di un’epoca che ha come protagonista, tra frammenti, testimonianze e ricerche d’archivio, il famoso prozio Isidor e le sue ramificazioni. Era un viveur, secondo quanto udito in famiglia, un uomo che si è fatto da sé, un ebreo dalla personalità fuori dall’ordinario che sperimentò un’ascesa sociale e economica apparentemente inarrestabile, del quale oggi rimane solo un nome e una scatola con un servizio di posate d’argento per ventiquattro persone. Per Kufberberg, che per mestiere è abituata a porre domande, sembra giunto il momento di interrogare il passato, consapevole che quest’ultimo risponderà solo se braccato.
Israel nasce nelle ristrettezze, anche di visioni, in uno shtelt ortodosso della Galizia orientale, ora in Ucraina, ma dentro di lui è troppo forte il desiderio di mondo, di cultura, di essere anche qualcun altro. Pertanto si trasferisce a Vienna, l’indiscussa capitale della cultura europea, di cui hanno scritto, tra gli altri, Stefan Zweig e Claudio Magris. Qui studia giurisprudenza e dà corpo a un curriculum impeccabile, si fa apprezzare nei circoli che contano fino a diventare funzionario dello Stato asburgico e Cavaliere del lavoro. Cambia il proprio nome nel più assimilato Isidor e si trasferisce nello sfarzoso appartamento in Canovagasse, dei cui ricevimenti parla tutta la città.
Isidor non rinnega le proprie origini ma crede che l’ebraismo debba vestire nuovi panni e concorrere alla nascita di una diversa forma di convivenza sociale. Del resto molti suoi correligionari hanno contribuito, nella letteratura e nella musica, nel teatro e nella psicologia, a rendere grande Vienna, prima come austriaci poi come ebrei. Gli è estraneo inoltre il fatalismo ebraico per il quale ci si aspetta di essere cacciati da un momento all’altro, di ricominciare tutto da qualche altra parte, di non legarsi troppo ai luoghi e alle cose. Nella capitale austriaca di inizio Novecento
percepiva chiaramente come nell’aria di Vienna lo slancio della modernità si mescolasse allo splendore dell’antico Impero asburgico e come la metropoli sul Danubio riuscisse a unire tutte le correnti, le mentalità e le culture, a farle proprie e a fonderle in un crogiolo di emozioni. Isidor voleva essere parte di quel dinamismo, di quel vortice.
Quello che Kupferberg tratteggia non è un eroe ma un uomo, certo non comune, ma pur sempre un uomo, con i suoi alti e bassi, che decide di darsi una seconda opportunità puntando tutte le proprie fiches su sé stesso con caparbietà, rischio e acume. E Isidor anche se siede allo stesso tavolo con i più influenti economisti e industriali austriaci, mantiene intatta la fedeltà al nuovo sé stesso di cui leggiamo, grazie a un narrazione tersa, schietta e quasi intima, le sue diverse istantanee.
Isidor pensa sempre in grande ma apprezza le piccole cose, è figura sempre presente per i propri famigliari, anche in caso di bisogno economico, vive con disinvoltura gli amorazzi che gli vengono attribuiti, raccontati dall’autrice con un tocco da rotocalco, e non rinuncia alla sua passione per l’opera lirica. Andare a teatro non è solo un mero intrattenimento ma anche una sorta di palestra delle buone maniere, delle convenzioni sociali, della moda e, soprattutto, l’occasione di respirare lo spirito del tempo.
A differenza di molti ebrei, come lui originari di uno shtelt, che ce l’hanno fatta e che idealizzano retrospettivamente le loro origini dipingendole come un malinconico idillio, Isidor vede in quel passato «una condizione di profonda miseria in cui solo una disperata fede in Dio teneva in vita la gente» e le scelte del suo presente sono una risoluta alternativa. Al contempo egli non sembra dare troppo peso agli avvertimenti del proprio sarto secondo il quale, nonostante l’assimilazione nella secolare società urbana, «un ebreo rimane sempre un ebreo» in una Vienna che, se può anche avere accolto il contributo dei propri cittadini di religione ebraica nelle professioni e nella cultura, cova da sempre un sentimento antisemita che riaffiora a ondate.
Isidor di Shelly Kupferberg, pubblicato quest’anno da Keller editore nella agile traduzione di Federica Corecco, ci offre, ed è uno degli aspetti più interessanti del testo, una cartografia di cosa significhi essere ebreo nella società viennese del primo Novecento, tra assimilazione, diffidenza e ostilità, tra Parnass e Orcus, portandoci nelle sartorie delle vie principali e nei caffè più in voga, tra le urla dei più facinorosi e il bisbiglio di chi, nonostante le apparenze, si sente un problema e guarda con preoccupazione al proprio futuro.
Isidor non si ritiene un abitante di una nazione straniera e non intende rinunciare alla sua identità tedesca, sovranazionale, ottenuta a prezzo di grandi sacrifici e nessuno, né gli antisemiti né i sionisti, lo potrà mai derubare di quella che ritiene la sua patria: Vienna. Al contempo sa cogliere gli angoli bui del mondo in cui vive, percepisce che l’antisemitismo è una realtà strisciante e decide, cosa che lascia perplessa la nipote, sua involontaria biografa, di adattarvisi, di vivere nel proprio bozzolo convinto che nulla potrà accadergli.
Poi arrivano i nazisti…
La lettura di questo libro invita a domandarci perché, quando oramai sventolano le croci uncinate, Isidor non si sia mosso da Canovagasse, diventando poi il capriolo che si aggira tra le rovine di un palazzo ora trasformato in un cimitero quando la stagione di caccia è aperta? E ancora: con la demolizione progressiva della memoria di chi siamo stati o siamo dovuti essere, Kupferberg, nel raccontare la microstoria del suo prozio, non sembra ricordarci che, in fondo, tutti noi abbiamo bisogno di un nostro romanzo personale in cui gli altri possano leggerci, lasciando vuota la libreria dell’oblio?