Camilla Gazzaniga
pubblicato 3 settimane fa in Recensioni

“Bene immobile” di Deborah Levy

l'io e le cose

“Bene immobile” di Deborah Levy

L’undicesimo capitolo di Bene immobile, di Deborah Levy, riporta un piccolo sovvertimento degli spazi. Lei, di ritorno nella sua stanza a Parigi dopo un viaggio, getta uno sguardo alle cose e ha l’impressione che l’ordine sia sbagliato. Sposta la scrivania sotto alla finestra, ancora con il cappotto indosso; così va meglio. Questo passo mi ha ricordato quando, appena arrivata in un appartamento che sarebbe stato il mio spazio per qualche mese, sempre in una città francese, ho compiuto come prima cosa la stessa azione, con le valigie ancora sulla porta.

Un gesto elementare, superfluo. In me di sicuro inconsapevole, ma in fondo era quello che Deborah Levy ha narrato lucidamente in Bene immobile: un modo di disporre gli oggetti dentro una vita ancora da realizzare.

Quella di Levy è un’Autobiografia in movimento − in inglese living autobiography − e Bene immobile è l’ultimo titolo di tre, senza che ci sia un ordine specifico di lettura. Sono editi da NN Editore nella traduzione italiana di Gioia Guerzoni, e hanno tutti a che fare con la materia autobiografica che diventa collettiva.

Nel primo testo, le Cose che non voglio sapere sono quelle di cui in realtà si ha una consapevolezza piena ma che si respingono giù, per convincersi del contrario o soltanto per non pensarci. Le cose che traboccano da un carico emotivo lungo una vita, due figlie, una separazione sentimentale, una casa da lasciare. Qualcosa che per forza di cose passa anche attraverso lo scrivere di chi sta vivendo tutto questo. Il costo della vita, nel secondo, è l’interrogarsi su come suona una frase mentre si patisce l’umido in casa e la mancanza di un posto materiale adatto a scrivere. Su come scrivere, e in genere qualsiasi attività intellettuale e non, dipenda dalla vita materiale: disporre di case, oggetti, proprietà.

Da qui il nesso con il terzo, Bene immobile. Ci sono stanze e oggetti; ci sono le cose materiali che appartengono alle persone e che costituiscono le case.

Nelle pagine gli oggetti seducono, sono sensuali e insoliti nel loro semplicissimo esserci: una pianta con grandi foglie tremanti, un paio di character shoes con tacco basso esposte in Rue des Abbesses, otto bicchieri da vino e un’insalatiera di legno nella credenza. Sono oggetti che le appartengono o che vanno a formare il suo portafoglio di proprietà immaginarie, come lo chiama lei, dove ha salvato diversi immobili di fantasia senza una precisa disposizione geografica, più o meno fattibili. Case dove si possa lavorare e vivere bene. Levy vuole una casa, o forse è più la costruzione del desiderio che la interessa − l’essere mossa dalla ricerca della casa, il desiderio che, non appena riesce a trovarla, si risolve. Come in un qualsiasi altro gioco di seduzione.

Diventa chiaro che Levy utilizza la proprietà come metafora del costo, anche materiale, che quello che vogliamo ha. Della corrispondenza tra un eventuale spazio proprio e il senso d’indipendenza che parte da lì, e tutte le architetture che riempiono il suo portafoglio immaginario alludono alle diverse forme che il desiderare può prendere. Lo aveva compreso anche Marguerite Duras quando, in La vita materiale, scriveva di un esterno e un interno delle case: se l’esterno è l’aspetto visibile, l’interno è il livello sentimentale, l’affezione che diamo le cose e quello che significano per noi. In senso anche politico.

Lo spazio domestico, se non è imposto dalla società o dal patriarcato, può essere un luogo potente. La sfida è quella di farlo funzionare per donne e bambini. In fin dei conti, si tratta di uno spazio domestico o solo di uno spazio per vivere? E se è uno spazio per vivere, nessuna vita ha più valore di un’altra, nessuno può occupare la maggior parte dello spazio o diffondere i propri umori in ogni stanza o intimidire qualcun altro.

E lei che narra, chi è lei? Non si esaurisce nell’io di Levy che sta scrivendo, ma con lei ovviamente c’entra sempre. Sono tanti i riferimenti letterari, Marguerite Duras, Simone de Beauvoir, George Sand, Adrienne Rich, Virginia Woolf, anche in questo terzo capitolo; tutti i titoli dell’Autobiografia in movimento sono un dialogo con la scrittura stessa, la sua e più in generale. Non a caso, forse, questo dialogo è spesso cercato con Simone de Beauvoir che ha caratterizzato i personaggi dei suoi romanzi con la trascendenza dell’io, applicando la tecnica ai personaggi narranti o visti dall’esterno, femminili e maschili. Trascendenza è, come concetto filosofico, la condizione di esistere al di fuori di sé: i suoi personaggi si perdono in qualcuno o qualcos’altro. Per questo, i lavori di de Beauvoir sono sempre un domandarsi come conservare la propria interiorità in un mondo di Altri, senza inabissarsi. Molti le hanno criticato la trasposizione della vita nei romanzi, come se i suoi personaggi fossero del tutto ricalcati dalle persone che la circondavano. In un’intervista edita in italiano da L’orma in La femminilità, una trappola lei spiega che un romanzo deve conservare un certo grado di verità rispetto a ciò che si vive; quello che rimane è questione d’inventiva. Per Levy si tratta proprio di questo: affermare un personaggio femminile che sappia stare nella solitudine, senza rimanerci chiusa dentro. Che abbia desideri e incertezze che non riguardino soltanto o soprattutto gli uomini. Che non deve essere né qualcosa in meno, né qualcosa di troppo rispetto alla vera lei, che non cerca di accomodare nessuno, nemmeno chi la legge. Levy scrive di personaggi femminili assenti, che sempre la interessano: in loro sono i desideri a sembrare assenti. Ma ci sono donne, al contrario, che hanno assecondato i propri desideri e sono state per questo umiliate dalla vita − nei romanzi come nel mondo − prima ammirate nel loro potere e fatte poi cadere, costrette quindi a una riscrittura patriarcale delle cose. Levy, nel pieno di queste considerazioni, riesce a trasporre un nuovo rapporto forma-contenuto: la sua è un’autobiografia in movimento in cui ciò che si vive, il contenuto, porta alla forma e non viceversa. La scrittura di Levy sembra disporsi in un presente continuo, non sembra davvero attingere dal passato; non c’è nemmeno nostalgia quando scrive, c’è semmai il senso urgente di riprendere la vita nel punto in cui si è interrotta, con alcune delle cose (anche materiali) che si avevano prima e altre che si aggiungono.

Con sé stessi si intrattiene una lunga conversazione senza fine, come l’ho ascoltata dire in un’occasione di incontro con i lettori all’ultimo Festivaletteratura di Mantova; così, forse, si potrebbe pensare il soggetto, la ricerca dell’identità narrante: come una lunga conversazione non finita.

Dormire nella seta era stato una rivelazione. Era fresca e calda, come una seconda pelle, forse un amante. Quando ero tornata alle lenzuola di cotone in cui avevo dormito tutta la vita mi erano sembrate insopportabilmente ruvide. Ci avevo dormito per una settimana forse per lo stesso motivo per cui veniva indossato il cilicio: mantenere il contatto con la dura realtà dell’esistenza. Francamente, non avevo più nessun bisogno di quel tipo di realtà.