L’anno del pensiero bachmaniano: “Malina”
chiavi di lettura delle Todesarten dell’Io
Quando un romanzo tratta di morte, bisogna essere consapevoli che presto sopraggiungerà la disfatta di una vita, anche nel momento in cui la narrazione instilla in noi la speranza della sopravvivenza. Ma quando un romanzo tratta della morte dell’Io allora bisogna solo prestare molta attenzione all’indicibilità delle parole utilizzate per rappresentarla. E se questo è un Io femminile, possiamo esser certi che sia stato assassinato.
Ricorre quest’anno il cinquantesimo anniversario della morte di Ingeborg Bachmann, la denkende-Dichterin – poetessa-pensatrice – vincitrice del premio letterario del Gruppo 47, redattrice radiofonica, filosofa, cosmopolita, donna e autrice che credo sia maggiormente necessario conoscere, leggere, amare. Perché per me è successo proprio così: scoperta per caso, l’ho letta dopo moltissimo tempo, ma l’ho amata all’istante. Sono nate in me una sorta di sorellanza viscerale e una tacita comprensione della sua anima, da cui non riuscivo a staccarmi, e che non ero neanche in grado di esprimere.
Da un lato è palese una mistica della parola, un’estetizzazione della stessa, una cura quasi maniacale alla questione del limite del nostro linguaggio – un linguaggio che sia in grado di pensare, di dire il senso e la verità, di trovare un pensiero che sappia dire; dall’altro è cristallina anche la sua afasia. Per dirlo con le parole di Wittgenstein, «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere»: possiamo comprendere il dolore, ma non abbiamo i mezzi per esprimerlo. Ed è nella minuscola crepa tra silenzio e parola che si pone la vita di Ingeborg Bachmann, tra amore e morte, avvertiti entrambi con la stessa intensità dell’autocombustione: «Amo. Fino all’incandescenza io amo, e ne ringrazio biblicamente il cielo», scriverà in Invocazione all’Orsa Maggiore. Infuocata, amata e assassinata dal fuoco.
Assassinio, combustione; termini non casuali per sviscerare Ingeborg Bachmann e la sua opera. Contemplare l’una senza l’altra è impossibile. Tuttavia, mi risulta estremamente difficile la scelta di un vocabolario che renda onore alla sua complessità. Riesco ad esprimerla solamente grazie a un intervento di Christa Wolf che – nella prefazione di Ein Tag im Jahr – scriveva:
Come accade la vita? È una questione di cui mi sono preoccupata presto. La vita è identica al tempo che passa ineluttabilmente e tuttavia misteriosamente? Mentre scrivo questa frase, passa del tempo; contemporaneamente inizia – e passa – un minuscolo pezzo della mia vita. […] Strano allora che non riusciamo a coglierla. Sfugge all’occhio che osserva, anche alla mano che annota diligente.
Le dimensioni patologiche del tempo, lontane dalla cronologia storica e lette in chiave proustiana, sono molto care a Bachmann. La sua opera è immobilismo linguistico, letterario e temporale, impossibilità di imprimere sulla pagina la complessità dell’esistenza, ma con una piccola via d’uscita. Alla difficoltà di dire oggi, si alterna la capacità di pensare un nuovo linguaggio che non rappresenti il mondo – così come fa la Storia – ma che lo presenti per la prima volta: l’arte. Malina.
Malina è (e purtroppo sarà sempre) l’unico romanzo del ciclo delle Todesarten che sia stato compiuto. E anche in questo caso, la scelta del termine non è casuale: non si tratta di presagi di morte (Todesahnungen) né della paura di morire (Todesangst); le Todesarten sono le maniere di morire e Malina è il romanzo degli assassinii (il tedesco non è forse una lingua meravigliosa?).
L’assassinio viene raccontato attraverso l’indicibile e incontenibile travaglio di una vita, quella di Ingeborg Bachmann. Possiamo dire che si tratta, infatti, di una sua autobiografia mascherata: è l’esemplare estetico dell’esperienza, il nascondiglio letterario dentro allo stesso muro che l’ha divisa, esiliata; il tentativo linguistico di esprimere le profondità del disordine quotidiano, del dolore, dell’amore.
Perché dietro a Ivan è mascherato il suo amore eterno e viscerale per Paul Celan, poeta morto suicida – dopo essersi gettato nella Senna – nel 1970:
[…] io mi riproduco nelle parole e riproduco anche Ivan, creo una nuova stirpe, dall’unione mia e di Ivan viene al mondo ciò che la creazione ha voluto:
Uccelli di fuoco
Azzurrite
Tuffo di fiamme
Gocce di giada
[…] La mia vita finisce, perché lui è annegato nel fiume durante la deportazione, era la mia vita, L’ho amato più della mia vita.
Perché tra le righe possiamo leggere delle sue esperienze nella Berlino del muro: «perché c’è solo un muro del pianto, perché nessuno ha costruito un muro della gioia?»; della sua Vienna, del paese della Ungargasse tra il numero 6 e il numero 9. Persino di Roma, che le ha insegnato a vivere e, purtroppo, anche a morire.
Malina, infatti, rimane il romanzo della morte, o meglio, delle diverse morti che ha incontrato, che l’hanno travolta, fino all’ultima. Il motivo del corpo che brucia e il suo ripetersi sembrano quasi sottolineare una visione premonitrice della stessa autrice: «Non vedi, brucio con questo vestito, ci si scioglie dentro, dev’essere una lana troppo calda e non c’è nessun altro vestito qui!». Ingeborg Bachmann morirà infatti nell’ottobre del 1973, a causa di gravi ustioni riportate dopo aver fumato una sigaretta in un momento di torpore, incendiando il vestito che indossava e di conseguenza la sua pelle. A differenza sua, l’Io narrante sta «attenta a non […] mutilar[si] da sola, a non bruciar[si], perché Malina altrimenti dovrebbe telefonare alla polizia e al pronto soccorso, dovrebbe ammettere che per colpa della sua trascuratezza una donna si è quasi bruciata».
E se dietro alla voce narrante ho trovato Ingeborg Bachmann e dietro a Ivan Paul Celan, non posso dirvi cosa, o chi, c’è dietro Malina. Posso solo dirvi che si tratta della rappresentazione del tentativo degli uomini di uccidere l’arte, di uccidere Vienna – che diventa un luogo chiamato Dovunque e In-nessun-posto e dove il tempo non è oggi. Di uccidere le donne.
Il romanzo si compone di tre personaggi principali, tre capitoli e la ripetizione di molti multipli di tre.
Ivan chiede cosa sto facendo, e io dico: Oh niente […] Non lo interessano le lettere, ma un foglio insignificante cui sta scritto Tre assassini. […] Ne prende un altro in mano e legge divertito: Cause di morte.
Sono dunque molteplici le possibilità di scindere ancora e ancora questo Io narrante femminile sempre più delirante e sofferente – la sconosciuta che segue un’altra sconosciuta – che vive in Ivan e muore in Malina. Sarà disintegrata, sparirà in quella minuscola crepa nel muro. Non rimarrà nessuna traccia, a prevalere sarà l’uomo. Perché sono loro gli assassini, gli uomini. Sono i padri, gli amanti: «[…] perché la nostra sorte è l’infelicità naturale, inevitabile, che deriva dalla malattia degli uomini di cui le donne debbono occuparsi tanto». Assassina è «la società […], il più grande teatro del delitto».
L’unico rimedio alla morte è dunque la scrittura. Le parole, per sopravvivere, sono necessarie; ma a possedere valore sono le parole che non possiamo dire. Di alcune cose non si può parlare, si possono soltanto vivere. Ma Ingeborg Bachmann – che si è «permessa di vivere nonostante tutto» – sembra reincarnare le parole di Gaspara Stampa che, nella prima metà del Cinquecento, vive ardendo senza sentire il male: quella sorella lontana ma simbolica, vissuta in un’altra epoca, la stessa salamandra che guizza «attraverso tutti i fuochi. Non la incalza alcun fremito, e non prova nessun dolore».