Culturificio
pubblicato 6 anni fa in Letteratura

L’ego e la droga

"Le confessioni di un mangiatore d'oppio" di Thomas De Quincey

L’ego e la droga

Nei primi anni dell’Ottocento, un ragazzino irrequieto abbandonava gli studi per andare a fondersi con la campagna inglese. Viveva a Manchester ed era pericolosamente sicuro di sé e del suo infallibile raziocinare, si faceva beffe di chiunque osasse proclamarsi suo insegnante, prediligeva i mendicanti e le prostitute agli aspiranti borghesi.

Thomas De Quincey è tuttora uno scrittore detestabile, o meglio, che cerca in ogni modo di farsi detestare, ma la cui arroganza verso il lettore non può che, paradossalmente, attirarlo nel nido di incubi che rappresentò la sua opera. Per gran parte della vita adulta dedicò i fiori e frutti del suo intelletto alla costruzione di un’immensa opera letteraria, un’autobiografia del perso e del ritrovato, da cui in vita non lasciò trapelare che alcuni stralci – le Confessioni di un mangiatore d’oppione sono un esempio esaustivo.

In questo testo De Quincey analizza finemente la sua esistenza sempre sul lastrico, senza un soldo, eccezion fatta per i non sempre sufficienti fondi ereditari, e la dipendenza dal laudano, antenato della morfina ottenuto dalla simbiosi tra alcol e oppio. La sua scrittura è autocelebrativa, si prende gioco del lettore, della sua infinita ignoranza, arriva ad augurargli ogni male possibile, certo con un intento meramente provocatorio, ma nemmeno pretende di essere solo lui nel giusto – esplicita uno degli intenti delle Confessioni: fornire con la sua testimonianza nuovi spunti alla medicina per le trattazioni dell’oppio, scoprendolo un fallimento prima ancora di iniziare la stesura; la sua è piuttosto un’esaltazione della sostanza e, da filosofo di formazione qual è, le sue descrizioni sono piuttosto affidate alle chimere che ai dizionari di medicina. Gli anni della dipendenza, che sappiamo non essersi mai estinta del tutto, furono anni senza sogni, ma di delirio, incubi che, com’egli stesso riporta citando Milton, erano “folti d’armi infocate e paurosi volti“. Tuttavia la sua forza, proclama, a discapito di quanto invece possa capitare ad altri che non godono delle medesime facoltà di raziocinio, risiede proprio nel suo florido intelletto, che in qualche modo lo tiene a galla nella dipendenza e, anzi, alle volte è persino capace di alleviargli un’esistenza di per sé atroce.

Il punto è: cosa sarebbe stato di un’esistenza rovinata senza un ego immortale che provasse a scavalcarla? Questi due elementi fanno di De Quincey forse il primo autore maledetto – nei modi che intendiamo nella terminologia attuale: l’ego e la droga, la vita contro la morte, dove la vita è la resistenza all’oblio e la morte l’oblio in tutte le sue forme. Il laudano, in questo caso, è vita e morte insieme, motivo supremo di gioie e dolori, o meglio, dovendo tener fede alla metafora appena utilizzata, è lo specchio della morte tramite cui la vita può manifestarsi.

L’opera del mancuniano, le sue chiamiamole pure visioni, che in quanto tali non si sbilanciano mai troppo però sul versante surreale o mistico, hanno gettato il seme per la nascita e le evoluzioni di Baudelaire, Aldous Huxley, persino di Poe, autori che privi della sua evidente influenza sarebbero stati, chissà, dissuasi dal raccontare le proprie esperienze e sollevare il “velo che si frappone tra la vita confusa dell’uomo e le sue sciagure avvenire“, e possiamo certamente dire che, proprio come loro, De Quincey fu tra i primi e più grandi creatori d’inferni nella letteratura.

Articolo a cura di Biagio Montanarella

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