L’etica del libro tra liberismo e libera cultura
Avremmo dovuto dire Poeti Assoluti per restare nella calma, ma oltre al fatto che la calma poco si addice di questi tempi, il nostro titolo ha questo, che risponde in modo adeguato al nostro odio e, ne siamo sicuri, a quello dei sopravvissuti tra gli Onnipotenti in questione, per la volgarità dei lettori elitari – una rude falange che ben ce lo rende. Assoluti per l’immaginazione, assoluti nell’espressione, assoluti come i ReyNetos dei migliori secoli. Ma maledetti! Giudicate. Paul Verlaine, Les poètes maudits, Avant-propos.
Nota preliminare: nell’indagine che segue il termine “libro” è usato in senso qualitativo, come una produzione dal valore artistico.
In medias res: il sunto è che concepire il libro come un prodotto commerciale e commercializzabile viene percepito come un fenomeno ossimorico da coloro che gridano in nome della “libera cultura”. La cultura non si (s)vende dicono costoro, che si ritengono senz’altro degni oppositori del Sistema. Ebbene, dico io: che vengano accusati di favoreggiamento. Le leggi del mercato nulla lasciano al caso. Ogni elemento che viene scartato dal mercato è un elemento che non serve al mercato. Che il libro stampato non generi il giusto profitto è un fatto innegabile. E ciò che non genera profitto, un elemento inutile quindi alla sopravvivenza armoniosa del Sistema, viene dal Sistema (ri)gettato. O, accade non di rado, riassorbito, in seguito a un processo d’acuta metamorfosi, un camuffamento ad hoc perpetuato nella storia del libro stampato fin dalle sue origini, quando capitava che un editore – allora inteso come proprietario di una tipografia – riproponesse dopo un periodo piuttosto lungo di tempo gli stessi fogli di un’opera rimasta invenduta cambiandone soltanto il frontespizio, producendo quindi una nuova emissione, ma non una nuova edizione, e facendo tuttavia credere ai lettori di poca memoria che quel libro fosse una vera e propria novità; al presente, in cui gli strumenti scenografici sono certamente più complessi, con le case editrici a pagamento, la nascita degli e-books, i portali di self-publishing, o episodi come l’acquisto di Rcs da parte della Mondadori, esempio di industria industriae lupus. Ne consegue che a essere rivoluzionario sarebbe non il libro come (non)prodotto della cultura libera e fuori dalle leggi del mercato, ma il libro come prodotto commercializzabile con un margine di profitto elevato all’interno del mercato. Questo manderebbe in tilt il Sistema. Non sarebbero più dei pupazzetti a generare profitto, ma sarebbe quella stessa cultura a priori anti-sistemica a tenere in vita il sistema stesso. A tutti coloro che sostengono questa seconda ipotesi, io lancio l’accusa di favoreggiamento. A dirla tutta, siamo davvero accerchiati. Se si vede nella cultura la personificazione del vero, o in senso più ampio del sapere, come può essere considerata rivoluzionaria una società in cui, per assurdo, il libro sia divenuto improvvisamente un prodotto dal margine di profitto elevato? Nondimeno, la conseguenza diretta e sotto gli occhi di tutti sarebbe quella di una società i cui adepti dovrebbero pagare l’accesso al vero, o ai veri, o al sapere, generando un evidente paradosso: senza la suddetta cultura non potrebbero porsi in opposizione al sistema, ma per porsi in opposizione al sistema dovrebbero pagare al sistema stesso l’accesso all’arma con cui poi sopraffarlo. Se neghiamo quest’ipotesi, torneremmo in meno che non si dica all’origine del cerchio: la cultura libera, intesa come cultura gratuita. Oppure, si potrebbe negare che la cultura sia una manifestazione del vero, dei veri, o del sapere. Ma non sarebbe anche questo un atto di favoreggiamento? Tutto questo girare a vuoto (mi) confonde verso l’assurdo.
Articolo a cura di Antonio Merola