Novà vlna: la nuova onda del cinema cecoslovacco degli anni ‘60
un cinema che reclama la propria libertà
Gli anni ’60 per l’allora Cecoslovacchia furono un periodo ricco di fervore intellettuale: il lento disgelo che il paese stava attraversando dopo la morte di Stalin e le rivendicazioni democratiche che sfoceranno nella Primavera di Praga si riflettono anche sul lavoro di registi e sceneggiatori. Solo pochi anni dopo la Nouvelle Vague francese, in Cecoslovacchia si forma un movimento omonimo, la Novà vlna (letteralmente Nuova onda), che riunisce un gruppo di registi da poco diplomati alla FAMU (la più importante scuola di cinema praghese), tra cui i nomi principali sono Vera Chytilovà, Milos Forman, Stefan Uher, Jan Nemec, Jaromil Jires, Evald Schorm, Pavel Juràcek, Jirì Menzel, Ivan Passer, Antonin Màsa, Juraj Jakubisko. I film di questi cineasti, ad un primo sguardo, presentano ben poche caratteristiche in comune. E infatti ognuno di loro va alla ricerca di un proprio linguaggio, di una nuova estetica, di una rottura con i tradizionali schemi narrativi: proprio qui essi trovano il loro punto d’incontro.
I registi della Novà vlna, approfittando di uno spiraglio di libertà offerto loro dalla situazione politico-economica del Paese, vogliono rompere totalmente con la cinematografia di Stato. Fino ad allora, in particolare fino alla metà degli anni ’50, il Partito Comunista utilizzava l’industria cinematografica come mezzo di propaganda politica: in questo modo tutti i film dovevano contenere un messaggio di esaltazione del partito, di estrema perfezione e felicità nella società e nell’individuo, ogni minima questione esterna a quest’ultime doveva scomparire dalla pellicola. L’industria cinematografica doveva puntare alla quantità, non alla qualità del prodotto: come racconta in un’intervista Vladimìr Bor (prima direttore artistico degli Studi cinematografici di Barrandov, poi direttore del gruppo di produzione “Sebor-Bor”, principale produttore dei registi della Novà vlna), all’epoca i produttori non potevano seguire un proprio programma artistico, il loro era piuttosto un “adempimento di un compito sociale”. Lo Stato forniva infatti premi di produzione ai gruppi più produttivi: dunque i produttori acconsentivano a qualsiasi lavoro corrispondesse alle richieste del Partito, ignorando la qualità artistica del film. I registi della Novà vlna vanno dunque alla ricerca di qualcosa di totalmente innovativo per il cinema cecoslovacco; del resto il pubblico stesso, ormai saturo di film tra loro identici, era pronto e aspettava qualcosa di completamente diverso. Questo qualcosa di stravolgente e nuovo i cineasti lo trovano semplicemente nella realtà, quella realtà, quella verità dell’uomo e del suo essere, del suo quotidiano nei suoi aspetti più penosi e banali, che la cinematografia di Stato aveva sepolto a favore di un modello in cui vi fosse spazio solo per la glorificazione di una società che non ammetteva imperfezioni. Sebbene ogni regista trovi il proprio metodo di espressione, ognuno lo fa cercando questa verità e tornando a chiedersi “chi è l’uomo?”, ritraendo così individui (e già in questo modo rompendo totalmente con una tradizione che non ammetteva l’uomo se non nel suo ruolo sociale) nei loro aspetti più umani, semplici, nella banalità del loro sentimento, sia esso la noia, la paura o l’amore. Un tratto comune a molti di questi registi è l’impiego di attori non professionisti: essi affermano che questo sia un ulteriore metodo di introdurre la realtà nella pellicola.
Emblematico riguardo l’utilizzo di attori non professionisti è il film Sedmikràsky (Le margheritine) di Vera Chitylovà. Uscito nel 1966, il film viene bandito e censurato quasi subito in quanto ritenuto immorale dal Partito Comunista. Non è semplice riassumere la trama del film, che a volte rischia di travolgerci in un assurdo nonsense, concepito come estrema stilizzazione di una riflessione attorno all’essere umano e, con toni sottili ed ironici, dell’ordine fasullo ostentato dal regime. Le due protagoniste, di cui non sappiamo assolutamente nulla, in una spirale di noia e nichilismo, decidono di distruggere e ridicolizzare tutto quanto le circondi, vivendo questa “missione” come un eterno gioco senza alcuna regola che le conduce all’autodistruzione. Le due attrici sembrano essere bambole nelle mani della regista, che ne imposta l’assetto quasi grottesco e le manovra abilmente come marionette: nella scena iniziale del film sentiamo uno scricchiolìo che fa pensare esattamente ai burattini, così come le movenze a scatti delle ragazze. Il film ruota attorno a dialoghi scarni, apparentemente paradossali: le due ragazze comunicano o attraverso banalissime constatazioni e grandi risate, o attraverso domande profondamente esistenziali.
Questo film, emblema dell’originalità e della rottura dei canoni della Novà vlna, termina con una lunga sequenza in cui le protagoniste cercano di rimediare all’ultimo disastro compiuto ripetendo senza sosta “ci siamo migliorate e saremo felici”: evidente satira di quella cinematografia imposta che doveva migliorare, attraverso l’esempio, il singolo per migliorare la società, e che stava riducendo il cinema da forma d’arte libera a mero strumento propagandistico.