“Parthenope” di Paolo Sorrentino e la rivoluzione dello sguardo
Iperbolico, dissacrante, a tratti persino disturbante, con un’estetica delle immagini curata fino al parossismo, Parthenope, l’ultima pellicola del pluripremiato regista Paolo Sorrentino, è un film sulla decostruzione dello sguardo, sullo sgretolamento del mito effimero della Bellezza attraverso la simbiosi tra una donna e una città.
La protagonista nasce dalle acque, come una novella Venere, e adotta il nome primario di Napoli: “Partenope”, originato da una leggenda che ne fonda il mito. Si narra infatti che una delle sirene rifiutate da Ulisse si chiamasse Partenope e che, sconvolta dal fallimento del proprio canto, morì gettandosi in mare. Il suo corpo fu restituito dalle acque alle foci del Sebeto, laddove sorgeva la città di Nèapolis, “città nuova”: Napoli appunto.
Il nome Partenope letteralmente significa “colei che sembra una vergine” e in questa definizione, in bilico tra “essere” e “apparire”, è celata anche la chiave di lettura del film di Sorrentino.
La voce graffiante di Riccardo Cocciante che fa da colonna sonora sulle note di Era già tutto previsto sembra essere l’incarnazione stessa della nostalgia. In quel “previsto” è racchiuso il trucco e, al contempo, l’epifania che altro non è che nòstos, il “dolore del ritorno”, che accompagna la protagonista.
Parthenope rende manifesta l’illusione perentoria della giovinezza; lo fa fin dal principio, quando dice al suo primo amore «Il futuro è molto più grande di noi», e mantiene la promessa sino alla fine quando la donna, ormai anziana, tirando le somme della propria vita afferma:
È stato meraviglioso essere ragazzi.
Eppure quel dolore implicito, il pungolo eterno della nostalgia, incalzava come una tristezza latente sin dalla piena giovinezza. Non è affatto semplice esplicitare il segreto del tempo – un’inquietudine che attanaglia l’arte da secoli, dalla letteratura alla pittura, dalla fotografia alla cinematografia – Paolo Sorrentino ci prova donandoci una sequenza di immagini abbaglianti, pervase da un continuo senso di stupore, accompagnate da una sorta di luce retrospettiva che impone allo spettatore una riflessione profonda e non superficiale. L’ossessione per la giovinezza perduta si conferma uno dei grandi temi dell’intera filmografia sorrentiniana: splendore e decadenza sono le cifre distintive del regista che insegue queste qualità in apparenza oppositive, eppure necessarie e complementari l’una all’altra, sequenza dopo sequenza, frammento dopo frammento. Se in Youth (2015) questo rapporto veniva analizzato dalla prospettiva della vecchiaia, ecco che in Parthenope Sorrentino sceglie di adottare la visione inversa, ovvero di partire dall’Età dello splendore, la Giovinezza, immortalata nella sua fame di futuro, nella sua innocenza ancora incorrotta, nella sua incompletezza e nell’ardente attesa del domani.
A cosa stai pensando?
È la domanda ossessiva, che ritorna. Nella mancata risposta risiede la fuggevolezza, l’imprevedibilità e il mistero stesso della protagonista. Alla fine la risposta sarà data da altri, non dalla diretta interessata; ma sarà accompagnata da un’esitazione.
A tutto il resto.
Ed è vero, ma non appena si cerca di definire meglio l’affermazione ecco che subito si insinua il dubbio:
Al tempo che scorre accanto al dolore. O forse non è così.
Come tutti i film di Sorrentino anche Parthenope è intessuto di messaggi assoluti, declamati con la certezza invincibile delle prediche sull’altare, eppure attraversati da un sentimentalismo che in parte li contraddice. «A cosa stai pensando?» non è l’unica domanda che interessa il film: ce ne sono altre e tutte incarnano l’inquietudine della protagonista, ma anche la sua curiosità, il suo desiderio di capire il mondo e quanto la circonda.
Cos’è l’antropologia?
È l’altra domanda che attraversa l’intera pellicola: sembra una domanda a effetto, eppure non vi è nulla di casuale, anzi, focalizza l’oggetto esatto della ricerca di Sorrentino, lo svelamento dell’umano in tutte le sue innegabili infelicità e contraddizioni.
Parthenope all’università decide di studiare Antropologia. Non a caso, si tratta della scienza che si occupa dell’essere umano, del suo comportamento, ed è proprio questo che viene passato in rassegna per tutto il film, attraverso la disamina dei vari personaggi che abitano il territorio, realizzando infine un’autentica fusione tra la protagonista e la città, Napoli.
Così come era accaduto ne La grande bellezza (2013), l’individuo e la città si riflettono e si specchiano l’uno nell’altra: il personale diventa collettivo, l’individuale si traspone nel sociale. Narrandoci la storia di questa giovane donna che cresce, matura e invecchia, Sorrentino compone una sorta di autobiografia sociologica, sovrapponendo l’individuo alla topografia.
La differenza principale rispetto al film vincitore del Premio Oscar è data dalla sua protagonista, interpretata dall’esordiente Celeste Dalla Porta: è una presenza che ruba la scena, calamita le attenzioni e riesce a ipnotizzare lo spettatore per l’intera durata della pellicola. Un po’ strega e un po’ maga, non convince solo dal punto di vista estetico ma anche da quello intellettuale, realizzando così un’autentica fusione tra Jep Gambardella e le sue controparti femminili. Se Jep cita Flaubert e Breton per darsi un tono, ecco che Parthenope legge John Cheever e nella scrittura dell’autore americano sembra riflettersi la sua stessa vita: incanto e disperazione, stupore e solitudine, amore e morte. Lei non si limita a leggere, incarna ciò che legge, situazione che raggiungerà l’apoteosi in un incontro tra lei e Cheever dai contorno quasi onirici, coronato da una frase singolare tipicamente “made in Sorrentino” dello scrittore:
Non voglio rubarti un solo istante di giovinezza.
Alla giovinezza di Parthenope fa da sfondo il mare e i mattini intrisi di luce intatta; ma man mano che la ragazza cresce, ecco che si svelano le ombre, i quartieri poveri e malfamati, la malavita e i riti sguaiati dei clan camorristi, gli anfratti bui dove si annida la miseria e si consumano i peccati che, spesso, hanno luogo nella sacralità delle sacrestie.
Infine arriva la risposta alla domanda che accompagna la ricerca umana della protagonista:
Cos’è l’antropologia? È vedere.
Attenzione: non guardare, ma vedere, dunque la percezione involontaria. Qui sta tutta la differenza e anche il segreto stesso della cinematografia, la firma d’autore del regista.
Dicono che Parthenope sia un film sulla bellezza, ma no, non è così: è un film sullo sguardo. Sorrentino ci restituisce lo sguardo degli altri sulla sua protagonista e, soltanto alla fine, noi spettatori ci rendiamo conto che per tutto il tempo siamo stati contaminati dallo sguardo di lei: abbiamo visto (e vissuto) attraverso i suoi occhi. Perché la lezione che la ragazza, poi donna, apprende è che non può lasciarsi definire dallo sguardo altrui, ridursi al mito effimero – e dunque tragico – della Bellezza.
Parthenope, la bella, giunge progressivamente a questa presa di coscienza tramite gli altri: in primis un uomo facoltoso e affascinante che la desidera e, al rifiuto di lei, la svilisce dicendole che dopotutto “lei non è intelligente”, non è questa gran cosa, anzi, in verità non pensa proprio a niente. Con queste parole l’uomo insulta la sua intelligenza e così facendo la oggettifica, riducendola a puro corpo. La umilia per appagare il suo desiderio frustrato, per rivendicare la propria grandezza e forza in opposizione al rifiuto di lei; ed è una manipolazione subdola che le donne patiscono spesso (essere umiliate perché non assecondano lo sguardo, quindi il desiderio altrui) e che nella pellicola è rivelata da uno scambio di battute perfetto che si ripercuote nello sguardo ferito di Parthenope.
Poi ci sono le bellissime dive Flora Malva e Greta Cool (interpretate rispettivamente da Isabella Ferrari e Luisa Ranieri) che hanno visto sfiorire la loro anima insieme alla bellezza perduta, condannate a un’infelicità irredimibile. La prima indossa una maschera, perché il suo viso è stato devastato dalla chirurgia plastica; mentre la seconda è una donna disillusa e sola che sputa addosso agli altri la propria rabbia come veleno, cercando di strapparsi dalla città natale, rifiutandola come si rifiuta un amante che ci ha deluso.
Infine è grazie al professor Marotta, cui è unita da un’identica profonda ferita, che Parthenope apprende che non deve essere guardata né giudicata dagli altri («Io non giudico te e tu non giudichi me», un patto amicale che è una bella lezione umana), ma deve imparare a “vedere”.
È questa la vera rivoluzione della protagonista – eroina di un’epica al femminile che è un inno alla Libertà – e anche il segreto della raffinata cura estetica del cinema di Paolo Sorrentino.