Saul Bellow
la vita tra le pagine
È il 1924, il cuore dei “roarin’ twenties”, i celebri anni venti, e siamo negli Stati Uniti.
Un uomo contrabbanda liquori per racimolare del denaro necessario alle cure del figlio, ammalato di polmonite.
Il giovane, curato, “Per la comprensione umana e la sottile analisi della cultura contemporanea che sono combinate nel suo lavoro”, ricevette un Premio Nobel nel 1976.
Mi riferisco a Saul Bellow, nato in Canada da una famiglia di origine ebraica.
La Chicago del periodo brulica di vita, è multietnica, culla del sogno americano, tutti corrono e rincorrono una gloria vaga e, più spesso, vana.
Se letto, a prima vista, potrebbe sembrare uno scrittore prolisso, perché il tempo della narrazione a tratti si ferma, prosegue a intermittenza, mentre un groviglio di emozioni e sensazioni pervade l’opera, ogni singolo personaggio ed ogni azione.
Bellow è davvero un grande conoscitore dei sentimenti umani; in tutti i suoi intrecci, nessuno escluso, abbiamo l’opportunità di provare affetto per almeno una delle figure che si muovono durante il racconto.
Egli è l’autore del libro che considero il miglior romanzo mai scritto che, proprio per questa ragione, non è ancora stato terminato.
Il titolo dell’opera non è importante.
Nel corso della sua vita ha scritto molto, a partire dal romanzo d’esordio, “L’uomo in bilico”, in cui Bellow si discosta dall’iperattività metropolitana per oziare all’interno di casa sua, fuori dal tempo, spaventato dal lavoro.
Insegue un sogno che ancora oggi non siamo stati in grado di comprendere.
Ricorda per certi versi il lavoro di Gončarov, Oblomov, sublime e pigro, nonostante il contesto si differenzi notevolmente. Lì siamo in Russia, le problematiche da affrontare sono altre.
A proposito di solitudine riflessiva, per analogia, vorrei scrivere di “Herzog”, uno dei migliori romanzi dello scrittore americano, pubblicato nel 1964.
Il protagonista, Herzog, un professore ebreo, trascorre le giornate in una vecchia casa di campagna a scrivere senza sosta, elemosinando rivelazioni sull’esistenza umana, a chiunque: amici di vecchia data, familiari, perfino a morti illustri, come se interagire attraverso il passato fosse possibile. Nessuna di queste lettere è stata realmente spedita; tuttavia sono state tutte conservate alla rinfusa.
Egli non ha la risposta al mistero della vita, eppure continua a interrogarsi riguardo al mondo circostante, cercando risposte a domande che, probabilmente, neanche esistono. Cercando, forse, proprio queste domande, a cui non è possibile fornire una risposta se tutto è così sconosciuto.
Tipica di Saul Bellow, diffuso a macchia di leopardo all’interno della sua produzione letteraria, è la figura dell’antieroe, privo di valide qualità ( il pensiero corre a Robert Musil ed al suo illuminante uomo senza qualità, di poco anteriore), che combatte giorno dopo giorno per emergere dalla melma sociale, alla ricerca di sé stesso, continuamente, abbandonato ad un isolamento speculativo, immerso tra morale ed immoralità, analizzando e giudicando la propria persona ed il resto degli esseri viventi.
Vorrei concludere questo scritto citando un’opera di William Golding, “Il signore delle mosche”:
“Quel che è peggio, neanch’io me ne curo, certe volte. E se io diventassi come gli altri, e non me ne importasse più… che cosa succederebbe?”
Perché citarlo? Perché l’ambientazione esotica e velatamente americana è molto simile all’ultimo romanzo in cui vorrei porre attenzione, ovvero “Il re della pioggia”, del 1959, assorto ad emblema imperfetto della produzione di Bellow.
Un 55enne americano, facoltoso, più volte sposato e più volte padre, si rifugia in Africa, fuori dalle strade trafficate della città, per cogliere, scoprire alcune verità sull’essere umano, su sé stesso e sul mondo che lo circonda, anzi, circondava.