Sublata virum manibus: il sacrificio di Ifigenia
In questo modo in Aulide i capi scelti dei Danai, fior fiore degli eroi, macchiarono orribilmente l’altare della vergine Trivia con il sangue di Ifigenia. E non appena a costei la benda posta intorno alle chiome verginali scese da una parte e dall’altra delle guance allo stesso modo e non appena si accorse che il padre triste stava davanti agli altari e che presso costui i sacerdoti nascondevano la spada e che i cittadini alla sua vista piangevano, muta per la paura caduta sulle ginocchia cercava la terra. (De rerum natura, 83-91.)
L’immagine del sacrificio di Ifianassa, utilizzando il suo nome greco, come paradigma delle conseguenze nefaste della religio, si staglia nel De rerum natura come un muro imponente, oltre il quale il lettore fatica ad andare, perché non può, non deve, distogliere lo sguardo. Un’immagine tragica, certo, che tuttavia suscita, ad un osservatore più acuto e smaliziato, ribrezzo. Sembra quasi, infatti che Lucrezio tenti di enfatizzare, sulla scia epicurea, “la connessione tra il corpo femminile e la sporcizia, la malattia e la morte” (A.M.Keith). La potenza immaginifica della descrizione si concentra al verso 85, esametro di quattro parole, in un verbo turparunt e in un avverbio foede che riconducono alla sfera semantica del disgusto, a sottolineare l’empietà sacrilega del sacrificio. E, per quanto gli autori veri e propri siano i Danai, è il sangue della vittima che contamina i sacri altari ed è quel corpo scomposto che lo contiene. La fanciulla, con le trecce corvine che ricadono su entrambe le guance, è pronta sia al matrimonio sia al sacrificio. Le donne, a Roma, usavano infatti portare i capelli acconciati in sei trecce (tre per lato), il giorno del proprio matrimonio, ma non è questo l’unico elemento che richiama la cerimonia nuziale.
Al verso 96, troviamo:
“Fu sollevata dalle mani degli uomini e fu condotta tremante verso gli altari”, nel quale deductast (fu condotta) evoca l’espressione tecnica di deductio sponsae in domum maritii, che corrisponde all’usanza di accompagnare in corteo la fanciulla dalla dimora del padre a quella del marito e, simbolicamente, ad una nuova vita.
In secondo luogo, però, vi è la voce sublata (fu sollevata), su cui è necessario soffermarsi: innanzitutto essa fa capo al costume – che, ironia della sorte, è nient’affatto estraneo alla contemporaneità- di sollevare la sposa e farle oltrepassare la soglia della nuova casa. Tuttavia, vi è un elemento interessante a livello morfologico e, di conseguenza semantico, infatti, poiché sublata è participio perfetto del verbo subfero, composto di fero (portare, trasportare e tollerare), sorge spontaneo chiedersi a che cosa faccia capo la scelta di quella forma particolare, dotata del preverbo. Per quanto mi riguarda, l’interpretazione è strettamente connessa all’idea della collocazione nello spazio che sub dà del corpo, con un rimando implicito alla sottomissione della fanciulla al dominio maschile: Ifigenia, dunque, non è soltanto sollevata ma è anche sottomessa, quasi non fosse capace di valicare da sola la soglia che la porta oltre la virginale giovinezza. Allo stesso modo sub sta a significare “condotta a forza” e quindi costretta ad un’azione non voluta.
Ma c’è di più: poco più avanti nella descrizione, Lurezio sostiene che tale sacrificio sia stato compiuto per garantire alla flotta una partenza felice e fortunata. Nella traduzione italiana, io credo, si perde buona parte del significato più vero del termine felix, il quale, invece nella traduzione di A.M.Keith cui faccio riferimento, è inteso come fruitful e si riconduce alla sfera semantica della capacità generativa di una donna tout court. Ifigenia è, pertanto, non solo vergine e nubile, ma è mulier, è innanzitutto una donna ed è in potenza una genetrix. Ed è in questo punto che il paragone si fa quasi raccapricciante: la fertilità della donna si annienta ma sopravvive nel proliferare della morte, fra i Troiani, segno che il sacrificio della fanciulla ha soddisfatto gli dei. Ecco allora che quest’ultimo assume la forma di un vero e proprio femminicidio i cui truci spettatori sono i sacerdoti preposti, ma soprattutto colui che per “per primo” Ifigenia osò chiamare col nome di padre, da cui si dipana il conflitto fatale. Senza dubbio si ripresenta, qui, il nesso preesistente fra corpo femminile, morte e malattia e risulta ancora più chiaro nell’isolamento in cui Lucrezio colloca Ifigenia. È infatti sola al cospetto di un gruppo di soli uomini non solo per il fatto di essere una donna ma perché una vittima sacrificale poco usuale (non sono infatti attestati sacrifici umani altrove nell’Iliade). Ed è dunque l’oggetto degli sguardi di uomini, che, come spettatori attendono il compiersi dell’evento quasi a ricordare il ruolo fondamentale che l’uomo, in quanto tale, riveste all’interno dell’opera intera. É come se Lucrezio invitasse, ogni lettore, all’identificazione con questo particolarissimo pubblico stabilendo una sorta di gerarchia attraverso l’esposizione del corpo esanime della fanciulla ad una schiera di soldati in armi e sacerdoti.