Culturificio
pubblicato 7 anni fa in Letteratura

“Il vecchio e il mare” e la dialettica della sfortuna

“Il vecchio e il mare” e la dialettica della sfortuna

Quando Dwight Mcdonald lesse Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, non esitò a definirlo un midcult, un’opera d’arte che, sotto le mentite spoglie d’un prodotto d’alta cultura, non presentava nient’altro che una moltitudine di banalità. La realtà, però, spesso amica sincera, sembra dirci tutt’altro. Pubblicato per la prima volta sulla rivista Life nel 1952, il romanzo ha  infatti ripagato il suo autore sia con il premio Pulitzer nel 1953 che con il Nobel l’anno successivo. Il vecchio e il mare si presenta al grande pubblico con tutte carte in regola per diventare un grande classico del ‘900.
Lo stoicismo dell’uomo che accetta la sua condizione, la passione dello scrittore per la pesca e il panismo di cui è fortemente intriso il racconto, sono le tematiche su cui la critica s’è concentrata di più, senza impedirci però d’intravederne un’altra. Anche se celata e assente dagli intenti del Papa, ne Il vecchio e il mare è infatti presente una vera e propria “dialettica della sfortuna”.

Santiago non prende un pesce da 84 giorni e per questo è considerato Salao: nella tradizione cubana, è la peggiore maledizione che possa abbattersi su un essere umano. Proprio perché maledetto, i genitori costringono il giovane Manolin ad abbandonare il vecchio dopo i primi 40 giorni di pesca infruttuosa. Questo è il tipico caso in cui il pregiudizio, la fallace credenza che una fatalità d’ordine superiore possa abbattersi su un essere umano e definirne destino e qualità di vita, porta all’emarginazione del soggetto, vittima di quell’infimo flagello rappresentato dalla stupidità e dalla superficialità che a volte costituiscono la cattiveria umana, cattiveria a cui sembra affidato, come in questo caso, anche il potere di modificare il finale di alcune storie. Infatti, niente sarebbe stato più opportuno, per un emozionante lieto fine, della presenza di Manolin durante la lotta fra Santiago e il marlin, presenza che il vecchio invoca a più riprese.
D’altro canto, tuttavia, durante l’epopea in mare, la tematica della sfortuna trascende sé stessa. Da effimero pregiudizio d’ una mente medievale predisposta a cacciare le streghe più che a cercare la verità, essa diventa una fatalità biologica, fatalità che segna in modo maggiore alcune creature e che, senza essere motivata da un’ apparente giustizia, ne risparmia altre.
Infatti:

Pensò con dolore agli uccelli, specialmente alle piccole, delicate sterne nere, che volavano sempre in cerca di qualcosa senza quasi mai trovar nulla e pensò: “La vita degli uccelli è più dura della nostra, tranne per gli uccelli da preda, pesanti e forti. Perché sono stati creati uccelli delicati e fini come queste rondini di mare se l’oceano può essere tanto crudele? Ha molta dolcezza e molta bellezza. Ma può diventare tanto crudele e avviene così d’improvviso e questi uccelli che volano, tuffandosi per la caccia, con quelle vocette tristi, sono troppo delicati per il mare.

Ma Santiago è essere umano. È uccello da preda e al tempo stesso piccola e delicata sterna nera. Uccello da preda quando s’accorge che per sopravvivere gli è sufficiente uccidere un pesce piuttosto che il sole o la luna; un piccolo pesce volante quando la vecchiaia, la stanchezza dei difficili giorni in mare e soprattutto la solitudine, non gli permettono di sollevare quel marlin, pesce spada che avrebbe agevolato la sua sopravvivenza ma al quale non può impedire di diventare soltanto mangime per gli squali.


Articolo a cura di Antonio di Cesare