Lorenzo Paolini
pubblicato 5 anni fa in Cinema e serie tv

“Velluto blu” di David Lynch

“Velluto blu” di David Lynch

Noir del 1986 scritto e diretto da David Lynch, “Velluto Blu” è un film che ancora  trent’anni dopo la sua uscita risulta elegante, impeccabile e morboso, per niente datato, con idee e soluzioni stilistiche ancora attuali, un film bellissimo e inclassificabile, di quelli che sembrano non esistere più, di quelli la cui complessità viene percepita solo successivamente dallo spettatore, dopo aver constatato quanto precise ma anche indefinibili siano le sensazioni che si coagulano attorno alcuni momenti chiave del film, per cui poi scatta un meccanismo grazie al quale si capisce che ciò che poteva sembrare avventato nel film non lo è, e quello che poteva apparire come inutilmente grottesco e inconcludente è invece necessario e funzionale al ritmo , che ogni scena e ogni personaggio hanno un costrutto preciso e tutto questo forma una grammatica particolare del film, grazie alla quale Lynch scrive e dirige la sua storia, con appunto delle regole precise che le permettono (alla storia) di volare alto, altissimo con le sensazioni dello spettatore, senza però mai uscire dai binari della logica della narrazione. Il fatto che sia una grammatica inusuale, non esclude che sia bellissima, il trucco,per comprenderla e apprezzarla, è smascherare ciò che c’è dietro il velluto blu, e allora si riesce a entrare piano piano nel mondo dei mostri di Lynch.

Per far si che ciò che avete appena letto non sembri un’inutile e incomprensibile pleonasmo, un necessario cenno alla trama e al contesto del film mi aiuteranno a render (spero) più appetibile la comprensione di quanto introdotto sopra.

Jeffrey Beaumont (Kyle McLachlan) un onesto giovane, tornando dall’ospedale dove è ricoverato il padre per un malore, passando vicino a un campo trova un orecchio umano, si rende allora conto che la sua cittadina natale non è poi così tranquilla come sembra. Senza coinvolgere  il detective del paese, padre di Sandy, ragazza che lo accompagnerà nelle sue indagini non solo professionalmente ma anche emotivamente, il giovane deciderà di scoprire da sè quale mistero si celi dietro all’orecchio amputato, venendo così catapultato in un mondo contorto e malato in cui una seducente e problematica cantante di nightclub ( Isabella Rossellini) e un sadico tossicodipendente, ( Dennis Hopper) lo svezzeranno alla crudeltà e perversità del mondo.

David Foster Wallace ha dichiarato in un’intervista fatta da David Lipsky che la visione di Velluto Blu nel 1984 gli cambiò la vita.

E in quel film c’era qualcosa… mi ha fatto intuire per la prima volta che essere un surrealista, o comunque uno scrittore bizzarro, non ti esentava affatto da certe responsabilità. Anzi, le aumentava.

Wallace focalizzandosi sui concetti di surrealismo e responsabilità riduce all’osso con semplicità magistrale la struttura portante del capolavoro di Lynch, dove la dimensione onirica e dell’inconscio rendono la materia del film rarefatta, volatile quasi impalpabile per cui tutte le situazioni in cui si trova il protagonista, specialmente quelle di notte, sembrano assecondare il non sequitur e l’intensità  dei sogni. Ma la forza edificante, morale, di tutta la storia, dà una compattezza e un costrutto solido e convincente al racconto lynchiano e si fa strada nello spettatore, progressivamente, il modo in cui il mondo e la vita agiscono sulle terminazioni nervose del regista, e la maniera in cui poi queste vengono elaborate, nel senso che Velluto Blu, come la maggior parte dei film di Lynch, è così inquietante perchè sembra terribilmente personale, come se Lynch potesse a suo piacimento aprire la porta della camera stagna del suo incoscio, osservarlo, capirlo e poi riprodurlo cinematograficamente. Ma, appunto, come dichara Wallace nell’ intervista, essere un artista surrealista non ti esenta da alcune responsabilità, anzi le aumenta; e infatti ciò che più commuove di Velluto Blu, a mio parere, è che, nonostante la stravolgente carica di violenza e perdizione, il film è tutto fuorchè nichilista, nel senso che dall’inizio alla fine Lynch offre allo spettatore una bussola morale:  quando la macchina da presa scava sotto terra mostrando blatte brulicanti che producono terrificanti suoni elettrici e, poco dopo,  entra dentro l’orecchio putrido trovato da Jeffrey, ecco che indiscutibilmente Lynch così facendo vuole aprire le porte di un “mondo strano” fatto di sesso, omicidi e perversioni, che coinvolge completamente Jeffrey (il quale ne rimane invischiato la mattina in cui non va a scuola a causa del padre ricoverato in ospedale e quindi, probabilmente, a voler dire che la bolla istituzionale comoda e quieta della scuola  esplode nel momento in cui ci si affaccia sul mondo di tutti i giorni) coinvolgendolo al punto da contaminarlo, e la follia della degenerazione morale vista  in termini di contagio sociale, si sviluppa adeguatamente nel film perchè anche la cantante di nightblub, Dorothy, affermerà in preda al delirio”…Sono stata contagiata!” e la stessa folle e rocambolesca indagine di Jeffrey per smascherare Frank metteranno a rischio la sua storia d’amore. Il confine tra bene e male è fragile, spesso interscambiabile nel lungometraggio lynchiano, ma la forza muscolare dell’amore conduce verso l’uscita del tunnel grazie alla sua luce, ed è grazie alle rose rosse nella scena di apertura, e ai pettirossi del sogno di Sandy, che Lynch offre allo spettatore la sua prospettiva morale, che risulta essere comunque amara e complessa visto   che il pettirosso che giunge a simboleggiare l’amore stringe nel becco una blatta. ” E’ un mondo strano” non potà che confermare Sandy guardando Jeffrey.

Il film è anche ricco di simboli fortissimi: indimenticabile la scena voyeuristica di Jeffrey nella stanza di Dorothy e la complessità che il concetto di mistero assume nello svolgersi della narrazione cinematografica; il racconto del sogno di Sandy a Jeffrey, dentro la macchina, vicina a una chiesa ma fuori dalla chiesa, sogno nel quale, con il cuore in mano, ma probabilmente ancora inconsapevole di quello che sta per  maturare nei confronti dell’amico , Sandy racconta a Jeffrey dei pettirossi che simboleggiano l’amore e che tornano a illuminare il mondo; le deliranti scene in cui il sadico Frank Booth, respirando popper da una mascherina di plastica che si mette sulla faccia, folleggia e stupra psicologicamente Dorothy e non solo, scene inquietanti che emanano lezzo di perversioni e di idiosincrasie personali, parendo rappresentazioni  di desideri inconsci, feticismi, ossessioni della psiche angosciata del regista, la cui nube densa, trova sfogo totale nella forma artistica. Lynch, quindi, autore anche della sceneggiatura, sintetizza con efficacia la sua poetica: il mondo impazzito, il contrasto tra purezza e orrore, l’attrazione – repulsione per il sesso. E proprio la forza dei contrasti nel film, crea una fortissima tensione che genera sbigottimento e senso di smarrimento, in momenti in cui, ad esempio,  al macello finale, si accompagna un happy ending da cartolina, incredibile, perfetto proprio perchè, si può dire sia (il finale) figlio di una mostruosa carneficina. Lynch alza il sipario di velluto blu e rivela un “dietro le quinte” di un mondo folle e triste, ma che può essere gravido di speranza, e con abilità riesce a condurre lo spettatore tra le onde impazzite dei contrasti inevitabili di una realtà folle, strana, anche crudele, ma che non è ineliminabile, come la ringkomposition finale conferma.

I film di Lynch non sono difficili, ma non è facile apprezzarli, e questo perchè di solito non si hanno gli strumenti giusti per comprenderli, o perchè si è abituati a un certo tipo di grammatica cinematografica che in Lynch non si trova, e questo rende ardua la comprensione del film, ma se si prova a svestirsi di ogni aspettativa, e ci si abbandona alla possibilità di entrare in un mondo incredibile, fatto di accenni onirici, brusche sferzate di violenza inimmagiabile, personaggi assurdi e grotteschi, si entrerà nel mondo di Lynch dove il grottesco e il banale si sposano tra di loro, e da qui il termine “lynchiano” che Wallace utilizza nel suo saggio dedicato a Lynch ( “Lynch non perde la testa” nella raccolta di saggi “Tennis, Tv Trigonometria e Tornado”)per definire l’insolito matrimonio tra i due termini sopradetti. Ecco ciò che Wallace disse al riguardo in un’intervista  storica da Charlie Rose:

Lynchiano è qualcosa tipo l’incredibilmente grottesco che esiste in una specie di unione con l’incredibilemente banale, e questo offre un’idea di cosa possa essere definito o no lynchiano. Jeffrey Dahmer confina con il lynchiano. […] Il frigorifero lynchiano sarebbe la convivenza di alimenti con pezzi di cadavere.

Quindi, molto più che un ottimo regista convenzionale Lynch è un artista surrealista, in grado di usare la materia invisibile dell’inconscio dandole una forma, una rappresentazione, e l’effetto  che ne consegue è un coagulo di strane sensazioni legate al film che suggeriscono che c’è molto di più dietro a ogni scena che semplice bizzarria o anarchia stilistica: Lynch è un regista che usa una grammatica speciale per confezionare film unici.

Sono convinto che se si riuscisse a essere più “adatti” a guardare il mondo di tutti i giorni attraverso la lente lynchiana scopriremmo  quanto siano comuni alcuni personaggi esageratamente grotteschi dei suoi film, solo che l’ordinario li camuffa, ci camuffa tutti quanti, e allora riuscire a sollevare l’elegante velluto blu del sipario del “mondo strano” ci permetterebbe di vedere quanto ordinariamente grottesca possa essere la vita di tutti i giorni.

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